Silvia Avallone, Acciaio
Rizzoli, 364 pagine, 18,00 euro
Silvia Avallone ha 25 anni, è di Biella, già capitale del tessile, e ha vissuto a lungo a Piombino, soprattutto gli anni dell’adolescenza, che sono stati i primi del nuovo secolo (e Piombino è stata – ed è – una delle capitali dell’acciaio). Ha scritto un romanzo di base autobiografica, imbevendosi, si direbbe, di letture del novecento toscano, soprattutto Cassola, il cui paesaggio naturale e umano non è lontano da questo, con i pregi e i difetti di un’antropologia di dure radici, aggressiva e malinconica di una malinconia che riguarda soprattutto le donne.
Avallone narra in questo efficace esordio il bene e il meno bene di un ambiente operaio chiuso, e l’amicizia di Francesca e Silvia, piccole donne che crescono tra maschi normalmente dominatori e avvertono il declino della loro classe di appartenenza. Lo sfondo ricorda La bella vita di Virzì, ma qui domina la sensibilità femminile. All’inizio si ha l’impressione di qualcosa di già visto e già letto, ma è un’illusione, perché personaggi e ambienti di questo tipo non si trovano nella letteratura italiana di oggi.
E nel nostro orizzonte gli operai contano poco e gli scrittori sono figli e nipoti di una cultura omologata e di una mutazione scontata, quella in cui si muovono le due protagoniste. Acciaio ha i difetti delle opere prime, perdonabili in virtù della sua freschezza e dell’ambientazione in un luogo che in pochi hanno conosciuto e amato.
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