Don DeLillo, L’angelo Esmeralda
Einaudi, 208 pagine, 19 euro
Il libro raccoglie nove racconti scritti tra il 1979 e il 2011 da uno scrittore che qui in Italia conoscemmo grazie a Fernanda Pivano e all’editore Pironti leggendo molti anni fa Rumore bianco e il cui Underworld è uno dei pochi grandi romanzi del tardo novecento, scena concentrata delle molte facce degli Stati Uniti nel corso del secolo, splendido romanzo storico postmoderno. Nei racconti si respira l’aria di una fine che non può non arrivare, di un’apocalisse che riguarderà tutti ma a partire da singole inquietanti attese e affannose o stordite domande di comuni osservatori cui è negata la possibilità di essere veri attori.
Essi avvertono segnali che non sono sempre facili da interpretare, ma sempre radicati in un preciso contesto narrativo, dentro una marginalità che rende più sensibili. E non importa se si è tra poveri (L’angelo Esmeralda, il racconto più sofferto e più bello) e impoveriti (La denutrita) o tra ricchi ed ex ricchi (Falce e martello) o nella middle class adulta e colta (L’acrobata d’avorio, Baader-Meinhof) o studentesca (La mezzanotte di Dostoevskij). Il sentimento d’insicurezza è lo stesso, ed è quello di una civiltà al suo inarrestabile tramonto. Sembra impassibile e non lo è, lo sguardo di questo lontano e straordinario erede di Kafka, non ebreo e molto americano.
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