“Credevamo che ci avrebbe salvati la costituzione, ma non è stato così. Le elezioni, ma non è stato così. La Corte suprema, ma non è stato così. Se e quando, forse in un futuro assai prossimo, la democrazia americana avrà finito di distruggersi, allora ci volteremo indietro chiedendoci in quale punto avremmo dovuto dire basta, e non l’abbiamo fatto”. Fahrenheit 11/9, il racconto epico-etico di Michael Moore sulla resistibile ascesa di Donald Trump, si chiude con questo monito che ci inchioda tutti e ciascuno, uno per uno e una per una, alle nostre responsabilità. Quando avrebbero dovuto dire “basta così”, negli Stati uniti? Quando, all’indomani dell’11 settembre, fu emanato il Patriot Act? Quando partirono le truppe per l’Iraq, in nome dell’esportazione di una democrazia che intanto si ammalava in casa? Quando Bill Clinton inaugurò la stagione del compromesso continuo dei Democratici con le banche, la finanza e il neoliberismo? E qui in Italia, quando avremmo dovuto dirlo? Quando ci dissero che bastava cambiare sistema elettorale per fare la rivoluzione e seppellire la prima repubblica? Quando di quella rivoluzione si avvantaggiò un imprenditore del mattone e della tv, così simile a Trump? Quando Radio Padania, erano i primi anni novanta, cominciò a sdoganare le viscere razziste del nord operoso contro il sud parassita? Quando l’Alto Colle ci impedì di seppellire con un rito elettorale il ventennio berlusconiano, e un governo di tecnici ci assoggettò alla disciplina del debito? O ancora poco fa, quando un ministro degli interni ha tenuto in ostaggio su una nave 170 persone per fare il bullo con l’Unione europea? O quando un sindaco, che invece quelle persone le accoglieva, è stato esiliato dal suo comune? Quand’è che infine la misura è colma, e si riesce a dire basta?
Michael Moore non ha fatto un bel film, ha fatto un film necessario, mosso dall’urgenza di dire una cosa inaggirabile prima che sia troppo tardi: la democrazia è un giocattolo molto delicato, e il suo funzionamento è solo nelle nostre mani. Ci vogliono secoli a costruirla (“Gli Usa sono una democrazia solo dal 1970”, quando i neri ottennero il diritto di voto), ma bastano pochi anni per distruggerla: negli Usa ne sono bastati quindici, l’arco di tempo racchiuso come in una cabala tra il 9/11 del 2001, data dell’attacco alle torri gemelle cui era dedicato il precedente Fahrenheit di Moore, e l’11/9 del 2016, data dell’elezione di Trump alla Casa Bianca. E quando la rovina comincia, diventano vane le forme che essa si era data per istituirsi e stabilizzarsi: elezioni, corti, costituzioni, diritti acquisiti possono rivelarsi più fragili dei tarli che le erodono e le svuotano da dentro. È già accaduto negli anni trenta, dice nel film uno storico che non teme il paragone tra il fascismo dal volto trucido di ieri e quello “democratico”, come lo chiama Alain Badiou, di oggi, che ha il volto pop dei Trump, dei Salvini, degli Orbán, dei Bolsonaro. E al quale hanno aperto la strada tarli ormai ben noti, che si chiamano disuguaglianza, smantellamento della struttura industriale e del welfare, de-alfabetizzazione di massa, confusione fra vero e falso mediaticamente indotta, attacchi allo stato di diritto, omologazione fra destra e sinistra. Siamo ancora in tempo a dire basta, di là e di qua dall’Atlantico? E come si fa, a dire basta?
Spietato con il Partito democratico americano, Fahrenheit 11/9 diventa tenerissimo quando inquadra le donne “guerriere” come Alexandria Ocasio-Cortez che sono la speranza del mid-term, gli insegnanti che hanno stupito il mondo con il loro sciopero imprevisto, i giovani in rivolta contro le armi. Si ride per non piangere sulle immagini di apertura del film, con Hillary Clinton, il suo staff e l’intero mainstream mediatico che alla vigilia delle ultime presidenziali brindavano tronfi a una vittoria sicura che non ci sarebbe mai stata; o su quelle della “sfilata della vergogna” di Trump e famiglia più stupefatti di noi per aver vinto la Casa Bianca come il premio di una riffa truccata. Si piange senza scampo alla fine, quando la camera stringe sul silenzio di Emma Gonzales alla marcia di Washington del 24 marzo scorso; o quando il racconto indugia sul caso di Flint, la città avvelenata dall’acqua piena di piombo, dove Obama finge di bere un sorso per sedare la popolazione invece di agire contro il governatore responsabile del disastro. Fra il 9/11 e l’11/9 c’è anche questo, infatti, la delusione per “il presidente più amato”, una ferita che brucia, nel regista, più di tutte le altre.
E che forse è quella che lo trattiene oggi, come lui dice, dallo sperare in un cambiamento del vento, nell’America di Trump come in Italia, dove “tutto è cominciato con Berlusconi, che Trump ha imitato, ma ora Salvini fa concorrenza a Trump”. Il suo film, invece, una speranza la apre. Vista da qui, da un’Europa che assiste ammutolita al proprio disfacimento, la società americana sembra più reattiva, più capace di lotte di resistenza civile in grado di prescindere dall’agonia dei partiti storici, più aperta al cambiamento generazionale non proclamato a suon di rottamazione ma praticato nei fatti, più fiduciosa nella rivoluzione femminile che qui si scontra contro il muro della misoginia, più vaccinata contro la xenofobia che qui dilaga e impera. Forse è solo un effetto ottico. O forse qui non abbiamo ancora trovato la cabala giusta per mettere due date a confronto, origine ed effetto l’una dell’altra, e noi a confronto con noi stessi, come in uno specchio.
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