La storia spesso aiuta a capire il presente. Ma diventa una guida imperfetta se si tratta di analizzare la realtà della Cina di oggi. Molti aspetti sono assolutamente privi di precedenti storici, e non è possibile tracciare paralleli esatti tra il presente e il passato. Inoltre, anche quando qualche analogia si può effettivamente fare, la storia non aiuta nel modo che si aspetterebbero i fautori dei parallelismi storici, come il presidente cinese Xi Jinping.
Alcuni analisti ritengono che tanto più vicina apparirà l’ipotesi che la Cina arrivi a spodestare gli Stati Uniti al vertice delle potenze mondiali, tanto più inevitabile diventerà la guerra: è la cosiddetta “trappola di Tucidide” descritta dal politologo statunitense Graham Allison. Tuttavia, per quanto suggestiva, questa analogia con Sparta (gli Stati Uniti) e Atene (la Cina) non regge a uno sguardo più approfondito. Innanzitutto, gli stati impegnati nella contesa sono più di due: le mosse di Russia, Unione europea, Giappone e di altre potenze non sono trascurabili nel determinare cosa accadrà o non accadrà in futuro. Per non parlare del fatto che l’esistenza di organizzazioni internazionali e di armi nucleari rende problematico ogni ricorso all’antica Grecia come modello per le attuali tensioni geopolitiche.
Non meno erronee appaiono le idee che Xi Jinping mostra di avere del passato, e questo è un dato significativo. Nel promuovere da un lato la Belt and road initiative (Bri), l’ambizioso piano infrastrutturale globale noto come Nuova via della seta, e dall’altro la sua visione del “sogno cinese”, mirato al rinnovamento nazionale, il presidente cinese ha usato l’immagine di una Cina che rifiuta il passato e insieme lo rinnova.
Dal lato del rinnovamento, la Belt and road iniative si annuncia come una rivisitazione tecnologicamente avanzata dell’antica Via della seta. Dal lato del rifiuto del passato, il ritratto che Xi fa del paese è quello di una potenza in ascesa che sceglie di rompere radicalmente con gli atteggiamenti adottati nella regione da Stati Uniti e Giappone durante il cosiddetto “secolo dell’umiliazione”, il periodo tra il 1839 e il 1949 in cui i due paesi (all’epoca anche loro potenze emergenti) erano coalizzati in un progetto imperialista in chiave anticinese.
Tuttavia, non esistono analogie storiche perfette: a dispetto del nome, la Nuova via della seta non è la versione contemporanea dell’antica. Quella “via” era, in realtà, un insieme di varie strade che si dispiegavano in maniera organica, non per effetto di un’imposizione calata dall’alto. Inoltre, le antiche vie della seta erano caratterizzate da flussi che si muovevano in varie direzioni, e la Cina veniva trasformata tanto dai flussi in uscita che da quelli in entrata.
Allo stesso modo, non esistono analogie perfette né per l’aggressività di Pechino nel mar Cinese meridionale, né per il suo progetto di creazione di un’ampia rete di campi di rieducazione per la minoranza uigura, musulmana, dello Xinjiang.
Analogie rivelatrici
C’è una cosa, però, che intriga noi storici di Cina e Giappone. Non è tanto il fatto che alcune analogie “imperfette” si possano comunque trovare, ma che i parallelismi più rivelatori sulla realtà della Cina di oggi si trovano proprio in quegli aspetti che Xi Jinping presenta come se fossero inediti. Si tratta, in particolare, proprio di analogie con le azioni e con la retorica storicamente adottate da Stati Uniti e Giappone nel periodo che va dalla prima guerra dell’oppio alla seconda guerra mondiale, cioè per buona parte del “secolo dell’umiliazione”.
Allora, come accade oggi per la Cina, mentre scalavano la vetta della geopolitica mondiale, Stati Uniti e Giappone suscitavano nelle altre potenze preoccupazione, ma anche soggezione. Allora, come oggi la Cina, i due paesi venivano dipinti come un misto di sviluppo economico accelerato e facilitato dallo scarso rispetto dei diritti dei lavoratori, di alta tecnologia e di ambizioni espansionistiche (puntualmente rivolte alle isole del Pacifico).
Anche i dirigenti di Washington e Tokyo di allora parlavano di rottura con la tradizione degli imperi che li avevano preceduti, proprio come fanno oggi quelli di Pechino. Sostenevano di essere mossi non dalla brama di potere, ma dal desiderio di migliorare le condizioni delle popolazioni che vivevano dentro e fuori i loro confini. Giustificando l’uso della forza con la necessità di garantire ordine e stabilità.
Le recenti azioni di Pechino in Xinjiang e in Tibet ricordano quelle condotte negli anni trenta del novecento da Tokyo in Manciuria e da Washington nelle Filippine alla fine del diciannovesimo secolo. Il Giappone inviò in Manciuria soldati e coloni per esercitare un’influenza diretta e indiretta sul territorio. Le pubblicazioni ufficiali giapponesi di allora parlavano degli abitanti della regione nello stesso modo in cui l’agenzia di stampa cinese Xinhua tratta oggi quelli dello Xinjiang e del Tibet: come abitanti di una zona di frontiera arretrata e pericolosa, che hanno bisogno della guida di un paese più avanzato. Analogamente, i sostenitori dell’espansionismo statunitense nelle Filippine usavano l’argomento dell’arrivo di idee e istituzioni “moderne”.
La storia ci suggerisce che i leader di Pechino farebbero meglio a cercare di far apparire le loro azioni meno simili ai modelli dell’espansionismo giapponese e statunitense tanto vituperato nei manuali scolastici cinesi. Per esempio, bilanciando la politica di assimilazione di uiguri e tibetani con qualche forma di rappresentanza e magari con l’introduzione delle due lingue – mandarino e uiguro o tibetano – a scuola. Oppure smettendo di far scomparire gli uiguri dello Xinjiang nei campi di rieducazione, pratica che evoca analogie storiche fin troppo inquietanti.
Per chiunque conosca la storia del Giappone e degli Stati Uniti, quello che la Cina sta facendo nel mar Cinese meridionale ha un’aria molto familiare. Ma qualche elemento inedito c’è.
Negli anni cinquanta dell’ottocento, il governo giapponese costruì nel golfo di Tokyo le sei fortezze dell’isola artificiale di Odaiba come parte di una strategia di difesa dagli Stati Uniti. Nel 1879 il generale Ulysses S. Grant (presidente degli Stati Uniti fino al 1877) viaggiò tra Cina e Giappone magnificando il progetto della Prima ferrovia transcontinentale, da poco completata dal suo paese. È un dato significativo in questo contesto, non solo perché si trattava di un progetto imponente per l’epoca quasi quanto lo è oggi la nuova via della seta, ma anche perché la ferrovia facilitò ai successori di Grant l’annessione delle Hawaii e delle Filippine.
Inedite rispetto al passato sono, invece, le pressioni fatte da Pechino sulle linee aeree straniere perché Taiwan abbia sulle mappe lo stesso colore della Cina. Anche se, forse, si può trovare qualche richiamo nelle mappe dei libri di scuola elementare che il Giappone fece modificare per includere dopo l’annessione di Taiwan nel 1895. Cosa che fece anche nel 1910 annettendo la Corea.
Di certo una differenza importante tra l’espansionismo cinese e quello di Stati Uniti e Giappone del secolo scorso sta nelle impressioni che suscita in patria. Prima della nefasta svolta autoritaria alla fine degli anni trenta, in Giappone le voci contrarie alle ambizioni imperialiste di Tokyo potevano esprimersi pubblicamente. E negli Stati Uniti Mark Twain (scrittore che Xi Jinping ammira) criticò aspramente l’invasione delle Filippine, scagliandosi contro l’idea che “l’aquila mettesse gli artigli su altri territori”.
Senza dubbio ci saranno cinesi che pensano la stessa cosa a proposito delle azioni del loro governo nel mar Cinese meridionale e della repressione in Xinjiang e in Tibet. Ma, diversamente da Twain o dai critici novecenteschi dell’imperialismo giapponese, per questi cinesi esprimere apertamente le loro preoccupazioni è pericoloso. E questo non evoca belle analogie con il passato.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito della National public radio.
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