Nelle sale è appena uscito il film più fresco, giovanile e radicale che abbia visto di recente. Firmato da un signore di 82 anni. In una professione in cui i grandi registi raggiungono quasi sempre l’apice prima della sessantina (e spesso creano i loro lavori migliori molto prima) Ettore Scola non faceva eccezione. Almeno finora.

Che strano chiamarsi Federico, un racconto profondamente inconsueto e commovente dell’amicizia tra Scola e Fellini, potrebbe sembrare uno strumento alquanto improbabile per riportare al centro dell’attenzione il più grande (e sottovalutato) regista italiano vivente. Se non il più grande regista vivente al mondo.

Fellini e Scola si conoscevano bene, e nel corso degli anni il loro lavoro li ha fatti incrociare spesso. Ma non erano esattamente “intimi”, e le loro sensibilità non avrebbero potuto essere più diverse. Un matrimonio filmico tra i due sarebbe stato per lo meno improbabile. Fellini – il più esageratamente barocco, visionario e originale regista dell’età dell’oro italiana – si è sempre impegnato a coltivare la sua leggenda, e ha vinto una Palma d’oro e ben quattro Oscar per il miglior film straniero (unico nella storia).

Scola, invece (e ce lo ricorda perfino in questo film), ha scelto di lavorare e vivere in modo più sottile. Il suo stile non si può sintetizzare con qualche frase a effetto, e la sua “impronta” (quella che i francesi chiamano “la patte”) è sempre stata delicata, variabile, costruita dai diversi soggetti e generi che ha sfiorato durante la sua lunga carriera. Il suo linguaggio formale (la scelta di dove piazzare la cinepresa e quanto regolare la luce per illuminare o oscurare quello che percepisce) è sempre stato al servizio dell’attore, del contesto fisico, della storia e dell’umore del film.

(Disegno di Ettore Scola)

Come i suoi colleghi Pietro Germi e Mario Monicelli, inventori insieme a lui della commedia all’italiana, Scola non è mai stato ammesso nel più alto livello del pantheon della settima arte. Non ha mai trovato un posto nel tempio innalzato da critici e giornalisti, schiavi inconsapevoli nella nozione consumistica di “firma” e di uno stile immediatamente riconoscibile che permetta di trasformare il regista in un marchio.

Conosciamo le ossessioni grandiose di Visconti, il radicalismo (formale e sostanziale) di Pasolini, l’estetismo calcolato di Antonioni e l’umanesimo sentimentale di Rossellini e De Sica. Qualsiasi cosa pensiamo dei loro film (e confesso che sono diventato un regista spinto dal mio amore per i loro lavori) ognuno di questi registi ha una firma riproducibile. Scola, Germi e Monicelli meriterebbero senza dubbio di sedere accanto ai grandissimi, ma hanno modellato i loro film nascondendo la loro personale impronta dietro un velo di sottilissima commedia e auto-ironia. Quasi solo per questo motivo il loro genio è stato colpevolmente trascurato. Ettore Scola non ha vinto la Palma d’oro, non ha vinto l’Oscar e non è diventato un feticcio per un esercito di intellettuali insicuri.

Ma non sembra che questa situazione abbia mai turbato l’autore di almeno cinque dei più grandi capolavori della cinematografia. E magari qualche fanatico del cinema d’autore penserà che nemmeno questi cinque film potrebbero essere stati girati dallo stesso regista. Un occhio più attento ed elastico, però, può facilmente individuare una coerenza artistica, come l’umanesimo caustico che ritroviamo nelle manie dei nuovi poveri lungo il raccordo anulare (Brutti, sporchi e cattivi, 1976), nei travagli dell’omosessuale Mastroianni nell’Italia di Mussolini (Una giornata particolare) e nelle bravate dell’imprenditore mascalzone Sordi in La più bella giornata della mia vita.

(Disegno di Ettore Scola)

Nonostante sia sempre stato un uomo politicamente impegnato (e per qualche tempo ministro-ombra della cultura del Partito comunista) Scola è riuscito a trovare una vena di umanità perfino in un Casanova decrepito e nostalgico dei privilegi dell’ancien régime (Il mondo nuovo con un Mastroianni come non l’avete mai visto) o nella tragicomica figura della figlia conformista di un ripugnante industriale (C’eravamo tanto amati). Ognuno di questi film contiene innovazioni formali poco appariscenti ma di grande portata, sempre al servizio della storia e mai della gloria del regista.

Per questo molti non si sono accorti che Scola ha anticipato Tarantino di trent’anni con la costruzione narrativa a incastro di C’eravamo tanto amati. O di come in La più bella serata della mia vita, ispirato a Dürrenmatt, la teatralità del set sia mescolata brutalmente con il tratteggio quasi documentaristico della città come paradiso per le frodi finanziarie (anche in questo caso in anticipo sui tempi di quarant’anni).

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Il Mondo nuovo Scola oltrepassa con un tocco delicato sessant’anni di film storici schiavi degli arredi e dei costumi, dedicando ogni secondo del film ai dettagli moderni della psicologia dei suoi personaggi affascinanti e irreprensibili, senza rinunciare mai al piacere di una ricostruzione storica accurata. Poi, all’improvviso, un’unica ripresa finale distrugge tutto ciò che lo spettatore ha pensato di questo rapporto con la storia fino a quel momento.

Durante la sua prolifica carriera (40 lungometraggi in tutto), Ettore Scola ha sempre sperimentato e come qualsiasi altro regista a volte non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi. Forse ciò che distingue i suoi “errori” da quelli di Fellini è il fatto che l’assenza di qualsiasi formalismo gratuito li rende in qualche modo più lampanti, come se chiunque avesse potuto commetterli. Ancora oggi non riesco mai a provare piacere guardando La città della donne (con Mastroianni facendo un pastiche del Mastroianni di Fellini facendo un pastiche di Fellini), ma c’è stato uno sforzo titanico per non farci scordare quanto è “felliniano”. Invece, quando mi ritrovo davanti a Che ora è di Scola non riesco a non pensare a come mai Mastroianni e Troisi appaiano così a disagio. Oppure a cosa avessero mangiato quel giorno sul set.

Dopo il modesto Gente di Roma girato in video nel 2003, Scola ha smesso di fare film, dedicandosi con entusiasmo alla traduzione dei suoi autori greci preferiti. Fino allo scorso inverno il regista sosteneva di non aver alcuna voglia di girare un altro film. Ma poi Roberto Cicutto, dell’Istituto Luce, lo ha convinto che la sua strana amicizia con Fellini doveva essere raccontata sul grande schermo: un testamento cinematografico dell’era dei giganti del cinema italiano. Ma come evitare che un progetto di questo tipo potesse essere altro che un pesante sfoggio di nostalgia, un imbarazzante “ritorno in scena” per un applauso non richiesto? Sembrava una pessima idea.

E in effetti le prime immagini del film, con i lenti dolly “felliniani”, i set artificiali e una sfilata di personaggi ovviamente felliniani, alimentava il timore che Scola avesse deciso di creare una parodia felliniana. Per poi chiamarlo un film di Scola. Ma accade il miracolo. Un grande regista ha convocato lo spirito di un altro grande regista oltre la tomba, creando un dialogo olimpico tra di loro. Un dialogo olimpico, però udibile dai comuni mortali.

Il film ha un ritmo onirico ma controllato. Seduti nel buio di un cinema, Che strano chiamarsi Federico ci porta a ricordare che l’esperienza naturale del cinema è vicina a quei sogni lucidi della mattina. La logica narrativa diventa un’altra. Ma visto che è un film di Scola e non di Fellini, il sogno è tangibile e immediato.

Le ricostruzioni finzionali del giovane Scola e del Giovane Fellini all’epoca in cui cominciavano la loro carriera nella rivista satirica Marc’Aurelio, negli anni quaranta, s’intrecciano con interviste documentari e immagini d’archivio che evocano il mondo del cinema dagli anni cinquanta agli anni novanta. Sullo schermo si alternano Fellini e Scola, reali e immaginari, e nel corso del film il Fellini immaginario emerge come una figura sospesa, che appartiene alla memoria del regista sopravvissuto ma anche a quella dello spettatore.

(Disegno di Ettore Scola)

Che strano chiamarsi Federico non è un documentario e nemmeno un film di finzione, ma esprime il meglio dei due generi. Supera il pastiche per creare un linguaggio ibrido originale.

In un’epoca in cui molti film sono pianificati a tavolino nei minimi dettagli per controllare le nostre emozioni e limitare la nostra percezione, la radicalità dello spazio creato da Scola e che offre un luogo di libertà inventiva allo spettatore. Come accade in tutti i film di Scola, il personale diventa sempre politico. Lo spettatore scopre un ritratto intimo di uno dei più vitali artisti del ventesimo secolo (tratteggiato da un collega di grandezza paragonabile) e nel frattempo è sempre consapevole del fatto che il mondo privato di Fellini non è immune dalla storia. Il passato politico e sociale dell’Italia emerge in ogni sequenza, e in questo modo è possibile misurare l’evoluzione dei due registi in relazione con i diversi contesti storici. Parte del genio di Scola consiste nel variare la sua enfasi a seconda dell’approccio che adotta: politico, sociale o estetico. Non c’è rigidità formale, soltanto l’istinto di un maestro al massimo della sua forma e con alle spalle ottant’anni di vita.

Il film di Scola, se farete lo sforzo di guardarlo al cinema in 35 mm, vi permetterà di sognare del cinema e di voi stessi. E del perché e percome voi e il cinema siete collegati. E altri pensieri fuori moda. Che strano chiamarsi Federico ci regala il piacere di uno sguardo ravvicinato sulle visioni opposte di due grandi registi. Scola lascia che il suo omaggio al collega segua l’infernale purgatorio felliniano – la musica di Nino Rota, i pagliacci, i nani, i seni abbondanti – con una generosità di spirito di cui probabilmente nessun altro regista sarebbe capace, ma allo stesso tempo apre uno scorcio sul suo personale paradiso arcadico.

Incanalando lo spirito di Federico dentro Ettore (e viceversa), Scola ha costruito una fiaba che racconta cos’è un film e in che modo una pellicola può toccare le profondità del nostro animo e del nostro intelletto, un po’ come accade nel caso specifico di Che strano chiamarsi Federico.

Con la saggezza di un uomo che vive da molto una vita piena, ma con l’energia e l’inventiva di un ragazzo ansioso di lasciare il primo segno nel mondo, Scola (grazie anche a Cicutto) ci ha fatto uno splendido regalo. Ma questo regalo bisogna coglierlo andando a vederlo nelle sale senza aspettare che su qualche sito internet compaia una copia pirata. Solo nel buio collettivo di una sala potremmo accedere a questo commovente dialogo onirico.

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