Il referendum del 17 aprile riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Dunque riguarda il futuro di 88 piattaforme oggi esistenti entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni a “coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi. Sono in buona parte nell’Adriatico, un po’ nello Ionio e nel mare di Sicilia, come si vede da questa mappa interattiva.

In questione c’è la durata delle concessioni. Il quesito infatti chiede di abrogare la norma, introdotta nella legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessione “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito. Se vincerà il sì quella frase sarà cancellata. In tal caso torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti.

In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto.

Dunque, se vince il sì le piattaforme oggi in attività continueranno a lavorare fino alla scadenza della concessione (o dell’eventuale proroga già ottenuta), ma non oltre. Certo, in gioco c’è molto di di più. I sostenitori del sì rimandano alla politica energetica del paese, parlano di energie rinnovabili, di investimenti in efficienza energetica. Ma sono accusati di mettere a repentaglio attività economiche e posti di lavoro.

Il referendum è inutile?

Chi si oppone alla consultazione ricorda che la legge di stabilità 2016 ha già bloccato il rilascio di nuovi titoli (permessi) per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. La durata della concessione però non è irrilevante, e ha risvolti molto pratici. Infatti, il blocco di nuove concessioni non impedisce che all’interno di concessioni già esistenti siano perforati nuovi pozzi e costruite nuove piattaforme, se previsto dal programma di lavoro. Potrebbe essere il caso della concessione Vega, nel mar di Sicilia, dove l’Eni progetta da tempo una nuova piattaforma (Vega B) da aggiungere a quella oggi in esercizio (la concessione scade nel 2022).

Ancora più importante: prolungando la durata della concessione si rinvia il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate e rimosse. È un’operazione costosa che da contratto spetta alle aziende concessionarie insieme al ripristino ambientale, quindi la spesa dovrebbe essere già inclusa nei bilanci. “Sospetto che le compagnie petrolifere puntino anche a questo, a rinviare in modo indefinito il momento in cui dovranno smantellare piattaforme obsolete”, dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.

Se vince il sì chiuderanno piattaforme operative e perderemo posti di lavoro?

È una delle obiezioni di chi è contrario al referendum. Ma si può confutare. Primo, la vittoria del sì non significa la chiusura immediata di tutte le attività in corso: le concessioni oggi attive scadranno tra il 2017 e il 2034. Il referendum poi non mette in questione le attività di manutenzione né, ovviamente, quelle di smantellamento e ripristino ambientale.

Quanto ai posti di lavoro, i numeri sono incerti. Assomineraria, l’associazione delle industrie del settore, parla di 13mila persone; la Filctem, la federazione dei lavoratori chimici della Cgil, parla di circa diecimila addetti solo a Gela e Ravenna. L’Isfol, ente pubblico di ricerca sul lavoro, parla di novemila occupati in tutto il settore (mare e terra).

Quanti di questi posti siano legati alle piattaforme entro le 12 miglia è opinabile. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom Cgil afferma che sono meno di cento. “Considerando l’indotto, arriviamo a una stima massima di circa tremila persone”, dice Giorgio Zampetti, esperto di questioni petrolifere per Legambiente.

Una cosa certa è che le attività sulle piattaforme non sono labour intensive (cioè basate soprattutto sulla forza lavoro). Per lo più sono manovrate in remoto: gli addetti lavorano soprattutto nella fase di trivellazione, ma intervengono ben poco nella produzione (darebbe lavoro, casomai, smantellare i vecchi impianti). Gli attivisti di Greenpeace sono rimasti sorpresi, l’anno scorso, quando sono riusciti ad avvicinarsi alla piattaforma Prezioso, di fronte a Gela nel mar di Sicilia, l’hanno scalata e vi hanno appeso un gigantesco striscione, senza trovare ostacoli né risposta: il fatto è che non c’era proprio nessuno.

Quanto petrolio e quanto gas contengono i fondali italiani?

Non poi tanto. La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di smc (standard metro cubo) di gas. In questi giorni circolano molti dati, ma attenzione a non fare confusione. L’intera produzione italiana, a terra e in mare, arriva a circa sette miliardi di smc di gas e 5,5 milioni di tonnellate di olio greggio, secondo l’ufficio per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero per lo sviluppo economico.

Però la produzione nella fascia protetta delle 12 miglia, oggetto del referendum, è una parte minore del totale. Se paragonata ai consumi, copre meno dell’1 per cento del fabbisogno nazionale di petrolio, e circa il 3 per cento del fabbisogno di gas. Insomma: rinunciare alla produzione entro le 12 miglia avrebbe un peso irrilevante sul bilancio energetico italiano.

Uno degli argomenti contro il referendum è che l’Italia, con una vittoria del sì, rinuncerebbe a una risorsa importante. Davvero? L’insieme delle riserve certe nei fondali italiani (entro e oltre le 12 miglia) ammonta a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico. Al ritmo attuale dei consumi, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Quelle di gas arrivano a 53,7 miliardi di smc: neppure un anno di consumo italiano. In termini d’indipendenza energetica è ben poca cosa.

Intanto lo scenario dell’energia cambia. Negli ultimi dieci anni il consumo italiano di idrocarburi è calato, osserva Legambiente riprendendo dati del Mise. Oggi l’Italia consuma in un anno 67 miliardi di smc di gas, e 57 milioni di tonnellate di petrolio: rispettivamente il 21 e il 33 per cento in meno rispetto ai consumi di dieci anni fa. Invece, è aumentata la parte delle fonti rinnovabili, arrivate a coprire il 40 per cento dei consumi elettrici (nel 2005 era al 15,4) e il 16 per cento dei consumi energetici finali (nel 2005 eravamo al 5,3).

Gli idrocarburi portano ricchezza all’Italia?

Neppure questo è tanto vero. L’Italia impone royalty (la somma versata in cambio dello sfruttamento commerciale di un bene) tra le più basse al mondo, pari al 7 per cento del valore del petrolio estratto in mare e al 10 per cento del valore del petrolio estratto a terra e del gas (a terra o in mare). Le royalty e i canoni (sull’occupazione del terreno) pagati dalle aziende sono poi detratti dal reddito su cui le aziende verseranno le tasse. Nel 2015 l’insieme delle royalty pagate allo stato e agli enti locali ammontava a 351 milioni di euro. La royalty si calcola sul prezzo di vendita del petrolio o del gas, al netto di alcune deduzioni. Su ogni giacimento però c’è una franchigia: sono esenti da royalty le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti offshore.

Il risultato è che molte piattaforme non pagano affatto. Secondo elaborazioni del Wwf sui dati del Mise, solo 18 concessioni in mare versano royalty, su un totale di 69 (entro e oltre le 12 miglia), ovvero appena il 21 per cento. Su 53 aziende estrattive, solo otto pagano royalty limitate e sono le più grandi (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni mediterranea idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia). A terra, solo 22 concessioni su 133 pagano royalty. È chiaro che alle aziende conviene prolungare la vita di pozzi che estraggono poco, perché restano sotto la franchigia.

Le piattaforme hanno avuto una valutazione d’impatto ambientale?

Che età hanno le piattaforme disseminate nei mari italiani? Anche questo punto ha risvolti molto pratici, nota l’ultimo studio pubblicato dal Wwf. Dai bollettini del ministero per lo sviluppo economico infatti risulta che 42 piattaforme (su 88) sono state costruite prima del 1986, quando è entrata in vigore la legge che istituisce le procedure di valutazione di impatto ambientale (Via). Tra queste, 26 appartengono all’Eni (o alle sue controllate), nove all’Edison e cinque all’Adriatica gas.

In altre parole, quasi metà delle piattaforme esistenti entro le 12 miglia non è mai stata sottoposta a una valutazione di impatto ambientale. Sembra impensabile, ma è così (il ministero dell’ambiente non ha nulla da obiettare?).

In generale, l’età media delle concessioni è piuttosto alta, 35 anni, e quasi la metà supera la quarantina. Su quel totale di 88 piattaforme, otto sono definite “non operative”, cioè non in produzione, e 31 (tutte a gas) sono “non eroganti” (cioè sono ferme per manutenzione o hanno cessato la produzione).

“Ci chiediamo perché le compagnie petrolifere tengano inattivi così tanti impianti”, dice Fabrizia Arduini, autrice di questo studio insieme a Stefano Lenzi. “Il ministero dello sviluppo economico dovrebbe esaminare la situazione, prima che questi relitti obsoleti collassino nei nostri mari”. Arduini cita il regolamento offshore sulla sicurezza, emanato dalla Commissione europea nel 2011 e poi diventato una direttiva: il regolamento “riconosce che il rischio di cedimenti strutturali dovuti al logorio degli impianti è uno dei principali fattori di rischio di incidente. Ed è chiaro che un incidente avrebbe conseguenze tanto più gravi se avvenisse vicino alla costa, cioè proprio nella fascia delle 12 miglia”.

Poi c’è il “normale” inquinamento. Il mese scorso Greenpeace ha ripreso i dati delle analisi compiute dall’Ispra (l’istituto di ricerca ambientale collegato al ministero dell’ambiente) su campioni di cozze raccolti intorno ad alcune piattaforme dell’Eni nell’Adriatico, dati mai resi pubblici: rivelano che i campioni contengono metalli pesanti e idrocarburi aromatici in quantità molto superiori ai limiti accettabili (quelle cozze sono normalmente messe in commercio, costituiscono il 5 per cento della produzione annuale della Romagna).

Ha senso continuare a puntare sulle energie fossili?

La decisione di bloccare ogni nuova attività estrattiva nei mari italiani entro le 12 miglia dalla costa risale al 2010: l’aveva deciso il governo Berlusconi sull’onda dell’allarme provocato dal disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico (risale ad allora anche il regolamento europeo sulla sicurezza offshore). Due anni dopo il governo Monti ha riaperto la strada a nuove concessioni, e nel 2014 il governo Renzi ha addirittura definito l’estrazione di idrocarburi una “attività strategica”, quindi non vincolata al consenso delle regioni (che infatti hanno prima impugnato la norma, poi deciso di promuovere il referendum).

Ora le nuove concessioni sono bloccate, ma quelle in corso diventano “a tempo indeterminato”. Ma ha senso continuare a puntare sulle energie fossili? Molti, non solo gli ambientalisti, sono convinti che concentrarsi sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica garantirebbe posti di lavoro, sviluppo, innovazione.

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