Bisogna essere assolutamente moderni: la rivendicazione e la personale interpretazione che Goffredo Fofi propone della perentoria intimazione di Rimbaud è il cuore di Suole di vento (titolo anch’esso rimbaudiano), film-documentario di Felice Pesoli presentato al Torino Film Festival che prova a raccontare la sua vita (finora, almeno). Essere moderni non significa per Fofi in nessun modo compiacere i valori e le mode via via egemoni, non vuol dire arrendersi o aderire ai propri tempi ma nemmeno tirarsene presuntuosamente fuori. Essere moderno coincide con l’essere presente all’epoca e il mondo in cui ci è dato vivere, sentirsi criticamente impegnati, o forse meglio implicati, nei conflitti, le contraddizioni, le creazioni. Significa scegliere e schierarsi: senza cedimenti ma senza secessioni.

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Sfida tanto più difficile in quanto di tempi e generazioni Fofi ne ha attraversati parecchi e parecchio diversi, dalla guerra vissuta da bambino alle ultime e ultimissime generazioni che continua ad allevare con le sue riviste. Passando per la Palermo di Danilo Dolci, dove la fame letteralmente scoppiava nei corpi dei bambini, la Torino della Grande Fabbrica che però non affittava case agli immigrati meridionali, la Parigi dove esplode la sua cinefilia, il ’68 studentesco, il ’69 operaio, i ragazzini proletari di Napoli, il riflusso della politica, la sconfitta davanti al terrorismo, la resistenza del volontariato, ancora con fiducia nell’attivismo sociale e le più varie forme di mobilitazione dal basso.

Soprattutto con l’attenzione (o l’ossessione) verso qualunque gruppo, preferibilmente giovanile (ma a volte anche una sola, singola persona), che in un angolo d’Italia stia provando a fare qualcosa di significativo dal punto di vista artistico o sociale. Da scoprire, andare a trovare (il concetto di distanziamento è assolutamente estraneo alla pratica umana di Fofi), strappare alla rassegnazione della marginalità, far incontrare con altri che fanno cose simili o molto diverse ma a suo giudizio utili, trascinare in esperienze giudicate formative (e poi magari abbandonare nel momento del successo con la predilezione, nel film ironicamente riconosciuta, per il gioco del piattello, che lancia in alto talenti da impallinare poi, alla prima buona occasione).

Mai soccombere
In mezzo tantissimo cinema, tanta letteratura e arte. E molte riviste: il suo ambiente ideale perché, spiega, fanno prevalere il lavoro di gruppo, la sorpresa della scoperta, il piacere dell’incontro. Così forse tace o arretra l’Io, questo mostruoso nemico contro cui Fofi pronuncia parole tremende già nei primi secondi del film e che sembra incalzare tutta la vita.

Salvo rivelare alla fine (ma lo si capisce fin dalle prime immagini, dalle precoci e singolari scelte del protagonista da giovanissimo) che nulla di positivo e di creativo sarebbe accaduto a questo ragazzino umbro figlio di artigiani impoveriti senza una robusta e tenace dose di individualità. Fino a fargli rivendicare, nelle penultime immagini, perfino la soggettiva categoria della volontà, quella che combatte e non soccombe al destino (senza nessun superomismo, però: piuttosto come omaggio di questo antico socialista alla più controversa delle virtù anarchiche).

Felice Pesoli è bravo a mettersi da un lato con la sua macchina da presa e presumibilmente sollecitare, ma poi lasciare che questo flusso di fatti e pensieri che è la vita di Goffredo Fofi venga raccontato tutto da lui stesso, con le sue uniche parole. Senza altre voci o testimoni (del resto come avere l’improntitudine di scegliere tra le migliaia di persone note e ignote che Fofi ha conosciuto, segnalato, promosso, utilizzato?).

Piuttosto il lavoro del regista è straordinario nel ricostruire, con il montaggio di rare e quasi sempre toccanti immagini di repertorio, i mondi che Goffredo ha attraversato e animato, con la sua mai ininfluente presenza. E nel consegnarci, con le poche scene girate in esterno che intervallano il racconto a una voce, l’immagine intima e poetica di un ultraottantenne che per le strade del quartiere dove oggi vive a Roma sveltamente cammina (non passeggia, va sempre da qualche parte Goffredo Fofi) da solo. Ma non isolato, e mai solitario.

Goffredo Fofi scrive su Internazionale la rubrica di critica letteraria Il libro.

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