Da giorni a Lagos e ad Abuja, in Nigeria, ci sono migliaia di persone che protestano contro la brutalità della polizia e contro la corruzione del governo. Un momento di svolta si è registrato il 20 ottobre, quando l’esecutivo ha imposto il coprifuoco a Lagos. Una folla di ragazze e ragazzi ha sfidato le autorità in modo pacifico, ma le forze dell’ordine hanno interrotto la corrente elettrica e hanno aperto il fuoco contro le persone, uccidendone almeno 12 e ferendone centinaia. In tutto il paese solo quel giorno ci sono state almeno 38 vittime, secondo Amnesty international. I video mostrano manifestanti freddati alle spalle.
“End Sars” è lo slogan ripetuto da chi protesta. Sars sta per Special anti-robbery squad, un corpo di polizia creato nel 1992 con lo scopo di contrastare crimini come le rapine a mano armata e i sequestri. Il gruppo fu subito autorizzato a compiere anche operazioni sotto copertura. Gli agenti si spostavano con veicoli non identificabili e aiutavano altri corpi di polizia nelle indagini su crimini anche efferati.
Tuttavia, proprio questa “invisibilità” – unita alla certezza di farla sempre franca –, ha spinto i componenti della Sars ad abusare del loro potere, specie contro chi è sospettato di compiere rapine o frodi. Spesso questi sospetti si sono basati su stereotipi e pregiudizi: bastava avere uno stile di vita alternativo o un telefono di ultima generazione per finire nel loro mirino. Sono moltissime le storie di ragazze e ragazzi che, indipendentemente dal loro status sociale, sono stati prelevati dalla Sars e portati in centri di detenzione per poi essere torturati sulla base di accuse infondate.
Secondo un report del 2016 di Amnesty international, la maggior parte delle persone sotto custodia della Sars sono state costrette a stare in cella per lunghi periodi senza processo, e senza la possibilità che medici e avvocati potessero accedere ai centri di detenzione. Inoltre, spesso le loro famiglie non sanno dove si trovano, o hanno paura di andarle a visitare.
Problema irrisolto
La Sars è stata sciolta l’11 ottobre scorso. Tuttavia, i manifestanti accusano il governo di non aver risolto affatto il problema, dal momento che i componenti del corpo speciale sono stati spostati in altri dipartimenti.
La violenza continua come dimostrano i tentativi di reprimere le manifestazioni di questi giorni. Nella capitale Abuja due donne hanno raccontato di essere state picchiate dalla polizia. La prima, di trent’anni, partecipava a una protesta l’11 ottobre. Racconta di essersi inginocchiata insieme ad altri compagni per dimostrare che si trattava di un corteo pacifico, ma la polizia ha cominciato a sparare i lacrimogeni, mentre tre agenti l’hanno aggredita. Ora si trova in ospedale. La seconda, di 28 anni, stava tornando a casa dal lavoro quando ha visto una folla di persone correre nella sua direzione inseguita dalla polizia. Sei agenti l’hanno presa a bastonate.
Il fatto che la Sars sia stata sciolta, dunque, non ha impedito alla polizia di continuare ad agire con un uso sproporzionato della forza e a uccidere i manifestanti. La vittima più giovane è Saifullah Sani Musa, un ragazzo di 17 anni morto dopo essere stato torturato mentre si trovava in custodia cautelare.
Un orizzonte più ampio
La paura e la sfiducia verso le forze dell’ordine – a prescindere dal corpo di polizia – sono generali. Ma chi protesta ha un orizzonte più ampio. Chi scende in strada lo fa contro la corruzione del governo, contro le disuguaglianze sociali, contro la mancanza di opportunità per i giovani (che sono la stragrande maggioranza della popolazione).
Del resto, i motivi scontento non sono nuovi. Tra gli anni sessanta e ottanta ne parlava già l’attivista panafricanista e cantante Fela Kuti. In Unknown soldier (1981) cantava: “Yes, them dey steal, yes, them dey loot, yes them dey rape, yes, them dey burn” (“Sì, loro rubano, sì, loro saccheggiano, sì, loro stuprano, sì, loro bruciano”). Il riferimento era alla polizia e ai militari nigeriani.
Infine, c’è anche chi protesta contro le discriminazioni di genere e contro quelle che prendono di mira l’orientamento sessuale delle persone. Non mancano abusi da parte della polizia e ingiustizie giornaliere contro la comunità Lgbt. Le persone che ne fanno parte non hanno alcun diritto in Nigeria, ma sono uscite allo scoperto nonostante i pericoli, usando lo slogan Queer nigerian lives matter.
Tra loro c’è Amara, donna lesbica che in questi giorni organizza gruppi e autobus per consentire a gay, lesbiche, bisessuali e transgender di partecipare alle proteste in modo sicuro. Ci sono anche delle safe-houses dove poter passare la notte. Poi c’è il collettivo femminista Feminist coalition che in questi giorni raccoglie fondi, cibo e acqua per chi scende in strada. Le donne sono in prima linea in queste manifestazioni, ma in verità lo sono sempre state contro la violenza maschilista e patriarcale in Nigeria, che ha raggiunto il culmine quest’estate con lo stupro e l’uccisione di Uwaila Vera Omozuwa, studente di 22 anni.
Non sono mancati presidi e cortei di solidarietà a Toronto e a Londra, organizzati da chi fa parte della diaspora nigeriana. Tuttavia, come spiega la scrittrice nigeriana Chibundu Onuzo, ancora oggi di fronte alle mobilitazioni organizzate nel continente africano ci si gira dall’altra parte. I mezzi di informazione sono più interessati a raccontare le proteste in paesi come gli Stati Uniti e l’Europa, mentre si mostrano poco attenti verso quelle che avvengono in Africa. E si lascia che i ricchi despoti di alcuni stati africani continuino a opprimere il popolo.
Perciò è importante parlare di Africa e della situazione nei diversi paesi che la compongono. Bisogna pretendere e fare un’informazione che ci allontani dagli stereotipi e dalle generalizzazioni, analizzare le dinamiche sociali i movimenti contro l’oppressione. Solo così gli si potrà dare l’importanza che meritano.
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