Nelle relazioni internazionali, anche nei momenti migliori, le incomprensioni non mancano. Lo conferma il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: “Quando due diplomatici si incontrano ci sono almeno sei diverse percezioni da gestire: come i due percepiscono se stessi, come si percepiscono a vicenda e come pensano di essere percepiti dagli altri”.

Dopo l’epidemia di covid-19, è chiaro che quello attuale è uno dei momenti peggiori. Di conseguenza le occasioni per incappare in un malinteso si moltiplicano. Il virus ha intrappolato gli esponenti dell’Onu in un dialogo tra sordi, mentre i paladini del multilateralismo cercano ovunque l’occasione per promuovere la democrazia liberale, trovare compromessi e chiedere la responsabilizzazione dei potenti, tranne che davanti al Consiglio di sicurezza.

Per Guterres questa situazione è estremamente frustrante. L’attuale segretario generale è stato uno dei primi leader mondiali a comprendere la gravità della pandemia, e ha pensato che i 15 paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu avessero l’occasione per interpretare un ruolo decisivo.

Dispute quasi teologiche
A marzo Guterres ha tentato di restituire rilevanza alle Nazioni Unite chiedendo un cessate il fuoco mondiale per concedere ai medici la possibilità di salvare vite umane. È stata una mossa sfrontata e idealistica, ma alcuni militanti in Camerun, Thailandia e Filippine hanno accettato di deporre le armi.

Il problema è che le tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti a proposito del covid-19 hanno bloccato la risoluzione per mesi. Gli Stati Uniti si sono opposti alla presenza nel testo di qualsiasi riferimento positivo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). E così Guterres ha scoperto che a fermarsi, anziché i conflitti, sarebbe stata proprio l’Onu.

Tre mesi dopo, la risoluzione è stata finalmente concordata, con l’esclusione di qualsiasi riferimento diretto all’Oms. Nel frattempo 12 milioni di persone erano state infettate dal Sars-cov-2 e più di 500mila erano morte. A quel punto lo slancio della proposta di interruzione dei conflitti si era ormai esaurito. Per avere un termine di paragone, nel 2014 il Consiglio di sicurezza aveva approvato una risoluzione sull’ebola in un solo giorno.

Anche una dichiarazione per celebrare il 75° compleanno dell’Onu in occasione dell’assemblea generale di settembre ha prodotto un lungo contenzioso all’interno del Consiglio di sicurezza. Gli Stati Uniti, infatti, non hanno voluto che vi fosse alcun riferimento al cambiamento climatico. Nel frattempo l’occidente, britannici inclusi, sospettava che la Cina stesse tramando per inserire all’interno della risoluzione una serie di concetti “comunisti”. Questo ha portato ad altri contrasti. Alla fine è stato raggiunto un accordo, ma alla maggior parte delle persone coinvolte è sembrato di assistere a una disputa teologica comprensibile solo per un manipolo di diplomatici.

Guterres ammette che il Consiglio di sicurezza, in questo momento decisivo per il pianeta, ha manifestato una paralisi e poco più. “I rapporti tra le potenze più importanti – Stati Uniti, Cina e Russia – sono più disfunzionali che mai. Sfortunatamente, laddove esiste potere non esiste leadership, e quando esiste la leadership il potere è insufficiente. Inoltre, se osserviamo le istituzioni multilaterali, siamo costretti a constatare che non hanno strumenti per essere efficaci, e quando li hanno mostrano scarsa volontà. Non vogliono incidere”.

Le prove dell’impasse
Questo stallo ha conseguenze che vanno ben oltre la scomparsa di un concetto astratto come l’ordine basato su regole liberali. Per dirla con le parole di David Miliband, amministratore delegato della International rescue committee ed ex ministro degli esteri laburista, “stiamo vivendo nell’era dell’impunità”.

“Tutto è accettato. Il rispetto della legge è cosiderato roba da perdenti. Questa è un’epoca in cui i crimini di guerra restano impuniti e le leggi della guerra diventano un’opzione. È un’epoca in cui i militari, le milizie e i mercenari credono di poter agire impunemente. Dato che in effetti possono agire impunemente, lo fanno nel modo peggiore”.

La vicenda della Siria è una prova a sostegno della visione di Miliband. Geir Pedersen, quarto inviato speciale dell’Onu dallo scoppio della guerra civile, nel 2011, ha già messo in discussione il proprio ruolo. “Quando ho chiesto ad amici e colleghi se facevo bene ad accettare l’incarico, mi hanno dato del matto. Pensavo che dopo otto anni di guerra i tempi fossero maturi per risolvere il conflitto. Naturalmente mi aspettavo una mancanza di fiducia tra le parti coinvolte, ma non credevo di trovare una sfiducia totale anche tra le istituzioni internazionali. Mi è difficile affrontare questa realtà”.

La Russia ha usato il suo diritto di veto addirittura per sedici volte a proposito della Siria, due volte soltanto a giugno per bloccare l’arrivo di aiuti umanitari nel paese.

“Aggiorno il consiglio ogni mese e a volte mi sembra che non ci sia molto da dire”, racconta Pedersen. “C’è una grande delusione per il fatto che il processo politico, dopo nove anni e mezzo, non ha portato alcun progresso sull’economia, sui prigionieri o sulla possibilità di far rientrare i profughi con dignità. Ho fatto presente al Consiglio di sicurezza che avrei bisogno di aiuto per fare passi avanti. Con un conflitto in corso da così tanto tempo, temo che la situazione diventi parte della normalità. Non riesco ad accettarlo. Ci sono stati migliaia di morti ma non fa più notizia”.

La Libia è la seconda prova dell’impasse internazionale. Anche in questo caso la guerra civile è in corso dal 2011, un arco di tempo in cui le Nazioni Unite hanno assistito a continue violazioni del suo embargo sulla vendita di armi.

Ghassan Salamé, ex inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, presenta un’analisi impietosa di tutti gli errori commessi. “Durante la guerra fredda il Consiglio di sicurezza era bloccato dal veto incrociato. Oggi siamo bloccati dalla disintegrazione dell’idea di una sicurezza collettiva. Quest’idea, all’interno del consiglio, non esiste più. Negli anni ottanta abbiamo attraversato un periodo di liberalizzazione finanziaria, il cosiddetto neoliberismo. Oggi, invece, viviamo un periodo di liberalizzazione della forza. In questo momento chiunque abbia i mezzi per fare qualcosa – in assenza di limiti interni, per esempio un parlamento – agisce senza che nessuno si frapponga. Diciamoci la verità, tutto questo indebolisce le democrazie. Perché non lo ammettiamo pubblicamente? Il problema non è che le democrazie producono regimi deboli. Il problema è che le democrazie hanno bisogno del multilateralismo. È indispensabile che tutti i paesi abbiano limiti interni, per regolare il comportamento dei governi. Se puoi ignorare la tua costituzione, il tuo parlamento e la tua opinione pubblica, e se non esiste un elemento di controllo esterno del potere (il Consiglio di sicurezza o le grandi potenze) allora si arriva al ‘liberi tutti’. Di conseguenza scompaiono gli argini esterni all’azione delle potenze di medio rango”.

L’Europa, secondo Salamé, è ormai impotente ed è stata ridotta al ruolo di banchiere della pace che si limita a finanziare la ricostruzione una volta che i combattimenti si concludono.

Una fase cruciale
Harold Koh, consulente legale del dipartimento di stato sotto Barack Obama e docente di diritto all’università di Yale, sostiene che stiamo attraversando una fase cruciale, seconda soltanto all’ultimo conflitto mondiale. “Negli anni novanta del settecento Immanuel Kant propose un ragionamento molto semplice. Disse che non l’umanità non ha bisogno di un governo del mondo, ma di nazioni democratiche impegnate a difendere i diritti umani e lo stato di diritto attraverso la cooperazione per un fine comune”.

“Essenzialmente Kant stava prefigurando il sistema delle Nazioni Unite. L’alternativa, espressa nel romanzo 1984 di George Orwell, consiste in un sistema di influenze tra le superpotenze in cui non esistono valori, le persone mentono e le alleanze cambiano da un giorno all’altro. I leader sono autoritari sul fronte interno e stringono amicizia con i dittatori sulla scena internazionale”.

La maggior parte degli osservatori concorda sul fatto che la visione orwelliana stia prevalendo, come si evince dall’incompatibilità delle visioni di Stati Uniti e Cina a proposito dell’ordine mondiale postimperiale.

La sede della Nazioni Unite a New York chiusa per l’emergenza coronavirus, Stati Uniti, 11 marzo 2020. (Tayfun Coskun, Anadolu Agency via Getty Images)

Tuttavia Mary Robinson, presidente degli Elders, il gruppo di ex leader delle Nazioni Unite, pensa che sia troppo presto per dare l’estrema unzione al multilateralismo. Recentemente Robinson ha dichiarato a Chatham House, la ong che analizza e promuovere la collaborazione sulle grandi tematiche internazionali, che il multilateralismo ha vissuto un periodo di grande difficoltà. Ma ha anche sottolineato che nel 2015 il mondo è stato capace di trovare un’intesa sul cambiamento climatico e lo sviluppo.

“Nessun evento avrebbe potuto evidenziare in modo più chiaro la necessità del multilateralismo, la semplice idea della collaborazione tra paesi per risolvere problemi che sono troppo grandi per una nazione”, spiega Robinson. I populisti, i venditori della sfiducia e del nazionalismo, sono andati a sbattere contro la pandemia. Anche negli Stati Uniti, le consuete strategie di Trump appaiono inefficaci.

Se Joe Biden vincerà le elezioni di novembre, la Casa Bianca accoglierà quello che è probabilmente il politico più atlantista del paese. Biden ha già detto che cancellerà il ritiro delle truppe dalla Germania voluto da Trump e ha promesso di organizzare un incontro tra le democrazie, una proposta che potrebbe incastrarsi con il progetto britannico di creare un gruppo di dieci paesi democratici. Di sicuro i toni del dialogo transatlantico cambierebbero radicalmente.

Ma una presidenza Biden non basterebbe a cancellare la rivalità politica o commerciale con la Cina e la Russia, né a riportare in vita l’egemonia di cui gli Stati Uniti hanno goduto alla fine della guerra fredda.

Una riforma dall’interno
Biden non potrà eliminare gli ostacoli alla riforma delle Nazioni Unite e delle istituzioni che ne fanno parte, come l’Organizzazione mondiale della sanità. Tutti gli attori coinvolti sono d’accordo sul fatto che il Consiglio di sicurezza sia un pezzo da museo costruito per premiare i vincitori della seconda guerra mondiale, uno strumento che non riflette il moderno equilibrio di potere. La maggior parte degli osservatori, tra cui l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ritiene che non abbia senso rilanciare gli sforzi per riformare il Consiglio di sicurezza o il sistema del veto.

Eppure un allargamento del Consiglio di sicurezza era stato proposto da un altro ex segretario generale, Kofi Annan, tra il 2002 e il 2005. Annan pensava di poter cogliere l’opportunità per facilitare un rapido cambiamento all’interno del consiglio di sicurezza, ma i suoi piani erano stati spazzati via dagli interessi dei paesi che fanno parte del consiglio, riluttanti all’idea di cedere parte del loro potere a nazioni come l’India o la Nigeria.

Samantha Power, ex ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha dichiarato al comitato per gli affari esteri britannico che nell’impossibilità di una riforma delle istituzioni multilaterali, l’obiettivo dovrebbe essere quello di trovare “soluzioni temporanee”, con un tentativo di sostenere la democrazia liberale dall’esterno del consiglio di sicurezza.

Secondo Stephen Rapp – ex ambasciatore speciale degli Stati Uniti per i crimini globali e procuratore capo del tribunale speciale per la Sierra Leone dal 2007 al 2009 – è possibile fare passi avanti agendo al di fuori del contesto del consiglio.

L’assemblea generale ha approvato a grande maggioranza (105 favorevoli e 5 contrari) una proposta per la creazione di un meccanismo internazionale indipendente che dovrebbe esaminare i crimini di guerra commessi in Siria. Nonostante le forti obiezioni avanzate l’anno scorso dalla Russia, l’organo delle Nazioni Unite che sorveglia sull’uso di armi chimiche, l’Opcw, ha ricevuto l’incarico di indagare sulla responsabilità per gli attacchi chimici in Siria. L’azione dell’Opcw è già cominciata.

Il consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, libero dal vincolo del veto, ha avviato un’indagine sui crimini di guerra in Libia e Venezuela. Il presidente del Kosovo Hashim Thaçi si è dovuto presentare davanti a un tribunale speciale per i crimini di guerra, mentre ad aprile, in Germania, sono stati portati alla sbarra per crimini di guerra due torturatori del regime di Assad, Anwar Raslan ed Eyad al Gharib.

L’ex ministro allo sviluppo e deputato conservatore britannico Andrew Mitchell sostiene che Scotland Yard potrebbe fare lo stesso con cinque ruandesi accusati di genocidio e residenti nel Regno Unito. Londra ha già aderito alle sanzioni previste dal Magnitsky act a proposito dei diritti umani e già sperimentate negli Stati Uniti. Presto anche l’Unione europea farà lo stesso.

Lavorare con rivali e alleati
Joseph Nye, sostenitore del soft power e docente alla Kennedy school di Harvard, ha sviluppato questi esempi per delineare la struttura di un nuovo ordine. Scrivendo per Project Syndicate, Nye ha osservato che “se Joe Biden sarà eletto, il problema che dovrà affrontare non sarà il ripristino dell’ordine internazionale liberale, ma la possibilità che gli Stati Uniti riescano a lavorare insieme a un gruppo ristretto di alleati per promuovere la democrazia e i diritti umani, collaborando con un insieme più allargato di paesi per gestire le istituzioni internazionali indispensabili per affrontare minacce transnazionali come il cambiamento climatico, le pandemie, i ciberattacchi, il terrorismo e l’instabilità economica”.

Un nuovo ordine di questo tipo, nel caso degli Stati Uniti, comporterebbe un ritorno del multilateralismo su due livelli, uno con gli alleati e l’altro con i rivali. Cina e Russia sarebbero trattate come elementi revisionisti all’interno dell’ordine internazionale esistente, e non come nemici che ne stanno al di fuori.

L’Europa ha un bisogno disperato di un nuovo ordine mondiale

Per riuscirci potrebbe servire un certo disallineamento sul piano economico, ma non politico. Al contrario, come ha sottolineato l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd, servirà lo stesso livello di impegno politico con la Cina, ma seguendo binari più chiari.

Gli Stati Uniti devono passare dalla strategia anticinese di Trump – conflittuale, imprevedibile ed episodica – a una competizione strategica sistematica. Paradossalmente, fissare una serie di linee rosse chiare tra la Cina e l’occidente permetterebbe al multilateralismo di prosperare.

L’Europa ha un bisogno disperato di un nuovo ordine mondiale. “Se vogliamo essere considerati e rispettati dalla Cina come partner paritario, dobbiamo organizzarci”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron.

Nel 2019 Francia e Germania hanno formato l’alleanza per il multilateralismo, un gruppo informale composto da circa cinquanta paesi (ma non dal Regno Unito) che ha avuto un ruolo cruciale nel fare in modo che l’Oms approvasse una risoluzione per avviare un’analisi del suo operato durante la pandemia di covid-19.

Il Regno Unito avanza la proposta di un D10, composto dalle democrazie del G7 più Australia, Corea del Sud e India. È una variante di un’idea proposta inizialmente alla fine del 2018 da James Lindsay, direttore degli studi presso il consiglio per i rapporti esteri che aveva parlato di un “comitato per salvare l’ordine mondiale”.

In Europa, sotto la superficie, ribolle un sorprendente ottimismo. La ministra degli esteri spagnola Arancha González ha dichiarato che “viviamo un momento decisivo in Europa, dobbiamo decidere se vogliamo fare un grande investimento nelle istituzioni europee per proteggere i nostri cittadini”.

Per González si tratterebbe dell’introduzione di un nuovo contratto sociale tra il governo e le persone. “Non vedo un mondo che si sta deglobalizzando. Al contrario, si sta riglobalizzando, ma non abbiamo un sistema di governo per questo mondo riglobalizzato. Mancano le regole globali”.

Come la sua connazionale, anche il capo della diplomazia dell’Unione europea Josep Borrell è convinto che l’Europa sia pronta ad alzare la posta. “Dobbiamo cambiare mentalità e smettere di essere accomodanti in tutte le situazioni. Dobbiamo imparare a dire ‘no’”, ha dichiarato recentemente al consiglio europeo per gli affari esteri. “L’Europa deve imparare il linguaggio del potere, e se deve impararlo significa che in questo momento non lo conosce. Altri attori sanno come usare non soltanto il linguaggio del potere, ma il potere in sé. In Libia e in Siria, Turchia e Russia hanno usato il potere, non soltanto il linguaggio. Che ci piaccia oppure no, sono diventati i padroni del gioco”.

Una delle visioni più ottimiste del futuro della cooperazione internazionale appartiene all’uomo che ha gestito il periodo successivo al genocidio in Ruanda. “Penso che stiamo vivendo un’epoca rivoluzionaria”, ha dichiarato Roméo Dallaire, ex generale e senatore canadese che ha servito come comandante della forza Unamir, i corpi di pace dell’Onu in Ruanda, tra il 1993 e il 1994. “I minori di 25 anni cominceranno a essere molto attivi e chiederanno che l’umanità sia trattata come merita. Sono la generazione senza frontiere. Questi ragazzi avranno i mezzi per influire grazie all’incredibile arma dei social network. Hanno la forza per scalzare i leader che finora li hanno frenati”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it