Aveva avuto così tanta difficoltà a sentirsi amato da un altro essere umano che aveva deciso di riporre il suo desiderio d’amore in una città. Aveva vissuto una relazione lunga e conflittuale con New York, si era innamorato di Parigi, era stato brevemente conquistato da Barcellona, intensamente soggiogato da Atene.

Ma aveva deciso di avere una nuova relazione sentimentale con Venezia. Aveva trovato un piccolo appartamento alla fine di Fondamenta Nove e qui si era trasferito approfittando di una biblioteca che la famiglia Raggi aveva costituito in più di un secolo e i cui libri sembravano ormai destinati al suo uso personale.

Mentre percorreva l’estremità nord dell’isola, galleggiante sulla laguna come una barca dalle dimensioni immense, aveva pensato che questa città somigliava al suo corpo trans: metà acqua e metà terra, in continuo cambiamento, instabile, al tempo stesso vulnerabile e forte, un corpo di finzione, ridicolo e incredibilmente tragico. Ai suoi occhi la città diventava un modello a grandezza naturale della costruzione politica dei corpi che lo spingeva a riflettere.

La città travestita
Se il genere fosse una caratteristica naturale dipendente dall’anatomia, pensava mentre attraversava il rio San Felice fino in Fondamenta della Misericordia, parlare delle città in termini di genere non avrebbe senso. Sarebbe assurdo dire per esempio che Stoccarda sia energicamente maschile ed eterosessuale o che Atene straripi di femminilità. Ma se al contrario il genere fosse un insieme di codici culturali variabili nel corso della storia, che rispondono non tanto a caratteristiche anatomiche ma a un’estetica fisica accettata collettivamente come normale o sanzionata come patologica, allora questa caratterizzazione delle città sarebbe non solo pertinente ma fondamentale in termini politici.

È in questo luogo proibito, su un terreno che non può permettere la fondazione di una città, che la meraviglia è stata costruita

Venezia, si diceva attraversando i ponti del Rio de la Sensa, è la città travestita. Tutta la città si erge, come una drag queen, sui tacchi fragili delle fondazioni. L’intera città è una protesi che il desiderio solleva sulla laguna. Venezia emerge, come il corpo trans, dal desiderio di vivere e di esistere a dispetto della diagnosi architettonica, medica e religiosa in base alla quale “questo luogo non è appropriato alla costruzione di una città. Nessuna città dovrebbe essere costruita su lagune paludose, né su sabbie mobili, non si dovrebbe costruire su questo insieme di acqua marina e fluviale. Non si dovrebbe vivere in un’atmosfera propizia alla febbre, alle epidemie e ai contagi”. Ricordiamo l’origine della città-arcipelago: fuggendo le invasioni barbariche dal quinto secolo all’ottavo secolo, le popolazioni che vivevano sulla terraferma del Veneto si rifugiarono sulle isole della laguna.

Esaltare la fragilità
Ed è in questo luogo proibito, su un terreno dove non è appropriata la fondazione di una città, che la meraviglia è stata costruita. Venezia è la città fuori norma, anzi è il luogo dove le regole di vita devono essere abolite e reinventate. La specificità di Venezia non sta solo nel contraddire in permanenza la sua impossibilità di esistere, ma che riesca a farlo non attraverso la forza ma attraverso un’esaltazione poetica della sua fragilità. Se i castelli e le fortezze sono chiamati ad affermare la loro sovranità e la loro virilità, Venezia è un corpo maschile trasformato in corpo femminile: è un insieme di operazioni che hanno reso possibile questa trasformazione che ammiriamo oggi come un’opera d’arte.

Chi vuole criticare la pratica del travestitismo potrebbe dire che a Venezia tutto è posa manierata, che Venezia canta con voce da falsetto. In realtà succede l’esatto contrario. La voce di Venezia è in continuo cambiamento. Ogni edificio e ogni ponte di Venezia sono (come nel travestitismo) assolutamente “reali”, nel senso che la filosofia di Hans-Georg Gadamer dava a questa nozione. Tutto è perfettamente “efficace”.

Venezia entra nel nostro inconscio e lo possiede grazie alla radicalità delle questioni che solleva. Com’è possibile che sia ancora in piedi?

A Venezia si dissolvono le differenze strategiche fra travestitismo e transessualità – e in questo caso il verbo dissolvere non è una metafora. Come un corsetto o delle ciglia finte per una drag queen, a Venezia non c’è un solo chiodo o una sola trave che non siano al tempo stesso assolutamente necessari e terribilmente belli. Venezia è, come il corpo trans, il luogo dove la lotta e la trasformazione degli elementi (acqua, aria, luce) acquisiscono una coerenza estetica. Venezia è la maschera diventata pelle. È il teatro trasformato in città.

Ma come quasi tutti i travestiti, Venezia subisce una forte pressione turistica. Una parte del suo corpo-finzione è logorata come quella di una lavoratrice del sesso. Però rimangono grandi zone del corpo urbano libere, posti che godono di una libertà e di una bellezza incredibili.

Venezia attira o spaventa, affascina o respinge, acceca o abbaglia. Forse solo Las Vegas, l’altra città trans del mondo, a sua volta un’emulazione di Venezia, riesce a provocare tante emozioni contrastanti. Come il corpo trans, Venezia entra nel nostro inconscio e lo possiede. E questo non a causa del suo manierismo o del suo eccesso decorativo, ma grazie alla radicalità delle questioni che solleva, grazie alla forza del desiderio incontenibile di esistere che manifesta. Com’è possibile che stia ancora in piedi? I riflessi di Venezia sono uno specchio nel quale il visitatore esamina il proprio genere, che misura la passione del suo desiderio di esistere.

Era immerso in questi pensieri (e immerso era tutto tranne che una metafora) quando un gabbiano, volando sul suo panino, l’ha fatto uscire dalle meditazioni. Un altro essere dalle piume bianche e ben disposte, dagli occhi intelligenti e il cui becco aveva la capacità (oltre a rubare panini) di disegnare un sorriso.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Libération.

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