1. Steve Hackett, Firth of fifth

In alcuni soggetti sensibili, il concetto di “triplo album dell’ex chitarrista dei Genesis” può battezzare avventure della mente quasi oppiacee. È più l’idea che altro: la rievocazione di una magia non può essere di per sé magia. Così è di questi Tokyo tapes, due cd e un dvd di calibrate rivisitazioni dell’era di Foxtrot e Selling england by the pound(con divagazioni, tra Bob Dylan e i King Crimson). Ma questa elegia pop quant’era bella nel 1973. Qui riappare mutilata della sua mitica ouverture al piano e la chitarra si prende tutta la scena. Malinconicamente.

2. R.E.M., Pop song 89

“Should we talk about the weather?”. E pure quel brivido alternativo che derivava dall’ascolto della band di Michael Stipe in quella fine del 1988, quando lanciavano l’album Green e non erano ancora il fenomeno stratosferico di Losing my religion ma se uno se ne intendeva un minimo già sapeva quant’era forte la loro It’s the end of the world as we know it, anche se era vietato celebrare il pezzo di successo, si andava per album, e la cosa da dire era che Document era un gran disco. Be’, adesso ascoltateli in versione Unplugged, chitarrine e mandolini.

3. Sinéad O’Connor (feat. Seun Kuti), James Brown

Una che non soffre di nostalgie è la cantatrice a spazzola con la voce cristallina, mai cristallizzata sulla routine. Adesso si è messa la parrucca, si è vestita da film di fantascienza e nel nuovo spavaldo album I’m not bossy, I’m the boss s’inventa cose diverse, come un afro-funky-country in compagnia del rampollo di Fela Kuti, evocando il re del funk e in generale accostandosi alla negritudine con una naturalezza senza sforzi né fronzoli. Dai tempi di Nothing compares 2 U ne ha passate di tutte. Ma non ha mai annoiato.

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