Un anno fa, diciotto mesi dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, i suoi rivali democratici avevano cominciato a preoccuparsi. Il presidente repubblicano, infatti, sembrava vicino a ottenere un successo in politica estera che avrebbe potuto accrescerne enormemente il prestigio.
Si trattava del primo incontro a sorpresa con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Nonostante fosse difficile trovare una coppia più bizzarra, la possibilità di risolvere un conflitto ereditato dalla guerra fredda sembrava alla portata, anche se fino a qualche settimana prima Trump aveva minacciato di distruggere Pyongyang e tutti temevano che potesse scatenare una guerra quasi per distrazione.
Oggi Kim Jong-un mostra fino a che punto quell’agitazione fosse fuorviante. Il presidente nordcoreano, infatti, ha appena presieduto una riunione con l’obiettivo di rafforzare la deterrenza nucleare del paese, laddove l’obiettivo di Trump era proprio la denuclearizzazione. Il mandato di Trump terminerà tra qualche mese, sancito dal fallimento della sua principale iniziativa diplomatica, di cui resterà solo qualche bella fotografia.
Senza progetto alternativo
La vicenda nordcoreana è rappresentativa della politica estera di un presidente distruttivo, che ha cominciato smantellando i successi dell’epoca Obama – l’accordo di Parigi sul clima, l’accordo sul nucleare con l’Iran, la normalizzazione con Cuba – per poi rimettere in discussione l’architettura del sistema diplomatico multilaterale.
Questo lavoro di erosione di un ordine imperfetto avrebbe potuto avere un senso se fosse stato accompagnato da un progetto alternativo. Ma Trump è un nazionalista che rappresenta perfettamente la crisi identitaria di una parte dei cittadini degli Stati Uniti, e le sue riflessioni non sono mai andate oltre la designazione di “colpevoli ideali”: il libero scambio, la globalizzazione e naturalmente la Cina.
Trump sta trasformando la rivalità con la Cina nel cavallo di battaglia della sua campagna elettorale
Come sottolinea l’esperta di questioni statunitensi Maya Kandel nel suo libro Les États Unis et le monde (Gli Stati Uniti e il mondo), “la politica estera di Washington è stata sempre e sarà sempre anche politica interna”. Per Trump, è prima di tutto politica interna.
Il grande paradosso attuale sta nel fatto che un presidente incapace di proporre una visione del mondo sta trasformando una questione di politica estera – la rivalità con la Cina – nel cavallo di battaglia della sua campagna elettorale.
Il covid-19 ha permesso a Trump di costruire un discorso semplice e comprensibile per i suoi elettori: tutti i mali degli Stati Uniti vengono dalla Cina. È riduttivo, soprattutto considerando la gestione della pandemia da parte del presidente, ma la natura del regime cinese e i suoi eccessi fanno il gioco di Trump, costringendo anche i democratici a rilanciare.
Al contempo reale e fittizia, strategica e strumentalizzata, la rivalità con la Cina coinvolge tutti i settori. Lo sfruttamento elettorale della Cina ha però un limite evidente: Donald Trump non ha alcuna strategia nello scontro con Pechino, e gli alleati scarseggiano. Oggi come ieri, l’interrogativo resta lo stesso: questo presidente è davvero il simbolo della fine del secolo americano?
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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