Il 30 per cento della popolazione mondiale e un terzo della ricchezza prodotta sul pianeta: è questo l’ordine di grandezza che si cela dietro la firma del Partenariato economico globale regionale (Rcep), un trattato di libero scambio firmato il 15 novembre da quindici paesi dell’Asia e del Pacifico.

Al di là delle cifre, il peso dell’operazione emerge dalla lista dei paesi coinvolti, con il relativo significato politico. Nell’elenco troviamo la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e tutti i paesi del sudest asiatico, ma non gli Stati Uniti, paese che affaccia sull’oceano Pacifico, e nemmeno l’India, l’altro gigante economico del continente asiatico.

Inizialmente il trattato avrà effetti economici limitati, ma già adesso ha una valenza politica considerevole. Il fatto che la Cina, bersaglio della guerra commerciale e tecnologica scatenata da Donald Trump, sia riuscita a concludere un simile accordo con tutti i paesi della regione, compresi alcuni alleati di Washington, costituisce un successo inconfutabile della diplomazia di Pechino. La Cina, in sostanza, ha dimostrato di non essere isolata.

L’accordo segna un fallimento eclatante per l’amministrazione Trump, arrivata ormai al tramonto e penalizzata dal suo unilateralismo e dalla mancanza di una strategia.

Per capire meglio la situazione bisogna tornare all’epoca di Barack Obama. Nei suoi ultimi anni di mandato, Obama aveva negoziato con i paesi dell’Asia e del Pacifico un trattato di libero scambio, escludendo la Cina. L’idea era quella di creare una zona di prosperità indipendente dalla crescente forza di attrazione della potenza cinese.

Nessun paese asiatico può permettersi di prendere le distanze dall’economia cinese

Nel 2016 questa strategia ha prodotto il Tpp, il Trattato transpacifico. Ma a gennaio del 2017, appena messo piede alla Casa Bianca, Trump ha voluto invertire la rotta rispetto al suo predecessore ritirando la partecipazione degli Stati Uniti al Tpp, che di conseguenza è nato morto. Si è trattato chiaramente un errore, perché la guerra commerciale contro Pechino scoppiata poco dopo è stata un braccio di ferro tra due potenze che non ha tenuto conto degli altri.

Quattro anni dopo, quell’errore è tornato d’attualità con l’Rcep, costruito attorno alla Cina. Lo sbaglio di Trump è stato quello di aver sottovalutato il peso della Cina in Asia e la dipendenza crescente della regione da un gigante diventato la seconda potenza economica mondiale.

A prescindere dalla diffidenza nei confronti di Pechino, del suo autoritarismo e delle sue tentazioni egemoniche, nessun paese asiatico può permettersi di prendere le distanze dall’economia cinese, soprattutto in quest’epoca segnata da una pandemia che la Cina sta superando prima degli altri.

Perfino l’Australia – le cui relazioni con Pechino sono ai minimi storici, con una serie di rappresaglie commerciali da parte dei cinesi – ha voluto firmare il trattato per non restare estromessa dalla più grande zona commerciale del mondo.

L’Rcep arriva proprio alla vigilia del cambio di amministrazione a Washington, dunque in un momento chiave per l’evoluzione geopolitica. L’accordo dimostra quanto sia difficile opporsi a un rivale strategico dall’enorme potenza economica. Questa, tra l’altro, è la grande differenza tra la situazione attuale e la rivalità che c’era tra Stati Uniti e Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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