Il punto di rottura si avvicina a grandi passi. L’espulsione dell’ambasciatore francese in Mali, annunciata il 31 gennaio, non è solo frutto della collera della giunta militare al potere a Bamako dopo le dichiarazioni poco diplomatiche del ministro degli esteri Jean-Yves Le Drian, ma anche il segno di una crisi che ha superato un punto di non ritorno dopo settimane di degrado dei rapporti.

Il comunicato maliano definisce “ostili e oltraggiose” le parole del ministro Le Drian, che in precedenza aveva definito “illegittimo” il governo militare maliano. Quando viene messa in dubbio la legittimità dell’interlocutore si va oltre la guerra di parole.

La Francia ha già preso atto dell’impossibilità di portare avanti le operazioni del suo esercito nella zona del Sahel, nove anni dopo l’intervento decisivo che aveva fermato una colonna jihadista diretta a Bamako per poi liberare il nord del paese. Le condizioni politiche sono cambiate radicalmente dalle scene di esultanza del 2013, e la Francia paga il prezzo di non aver anticipato per tempo questa evoluzione.

A cambiare tutto è stata l’azione jihadista, che ha completamente destabilizzato il Sahel. Il numero di vittime civili non ha mai smesso di aumentare, mentre la zona di insicurezza si è allargata nonostante il rafforzamento del dispositivo militare internazionale: la missione francese Barkhane, i caschi blu della Minusma, gli addestratori europei dell’Eutm e infine Takuba, l’ultima nata che ha riunito le forze speciali di diversi paesi europei.

Quando questi soldati internazionali, insieme agli eserciti locali, si sono rivelati incapaci di arrestare una violenza abominevole, con raid che ogni volta provocavano decine di morti nei villaggi, l’intero edificio politico è crollato. La deriva degli stati fragili ha provocato la messa in discussione degli eserciti stranieri che non hanno saputo migliorare il livello di sicurezza, primo tra tutti quello dell’ex potenza coloniale, la Francia.

Chi stabilisce cosa è “legittimo”? Di certo non Parigi, rispondono i militari maliani

Questo aspetto spiega i colpi di stato militari a ripetizione, in Mali e poi in Burkina Faso, accolti con gioia dalla popolazione. Oggi i presidenti eletti non hanno alcun peso quando la fiducia evapora e l’esercito appare come l’ultima speranza. La storia ci dirà se si tratta di una fase transitoria, ma la realtà politica attuale è questa. Tutto ciò è al centro dell’incomprensione che hanno scatenato le parole sulla “legittimità” pronunciate da Le Drian. Chi stabilisce cosa è “legittimo”? Di certo non Parigi, rispondono i militari maliani.

La Francia dovrà adattarsi a questa nuova situazione, in un clima ostile alla vecchia potenza coloniale, associata a un potere statale vacillante. In Mali questo processo rischia di innescare una fase di rottura, tanto più che la giunta ha deciso di assoldare i militari russi del gruppo Wagner e si oppone alle decisioni delle organizzazioni regionali che vorrebbero un rapido ritorno alla vita civile.

La Francia e i suoi partner europei dovranno rivedere il loro approccio per tenere conto del fatto che la forte visibilità non è più accettata se mancano i risultati tangibili. Come “passare inosservati” mantenendo al contempo un dispositivo efficace, sicuramente incentrato sul Niger? Come impedire che l’insicurezza travolga anche i paesi più a sud, dalla Costa d’Avorio al Togo e al Benin?

Questa revisione strategica avviene nelle peggiori condizioni sul campo e con il rischio di una politicizzazione, ormai inevitabile, nel contesto elettorale francese. I jihadisti, da questo punto di vista, hanno compiuto la loro missione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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