In un mondo in cui il diritto cede sempre di più il passo ai rapporti di forza, quello che succede intorno alla Siria non dovrebbe sorprenderci. Dal 2011 il paese è stato il teatro di un dramma di portata storica, con la morte di centinaia di migliaia di persone che chiedevano solo la libertà, l’esodo di metà della popolazione, la distruzione delle città e lo smembramento del paese. Il tutto per permettere a un regime dispotico, quello della dinastia Assad, di restare al potere con l’aiuto principalmente di due potenze: la Russia e l’Iran.
Questo tragico bilancio ha trasformato il governo di Bashar al Assad in un paria nella regione e nel mondo. Da oculista, Assad si è trasformato in un implacabile tiranno quando ha preso il posto di un dittatore (suo padre), nel 2000. Ma ora la messa al bando di Damasco comincia a svanire in nome di una realpolitik che si accompagna a un’impunità imperante.
Tastare le acque
Gli Emirati Arabi Uniti, punta di diamante della “controrivoluzione” in Medio Oriente, hanno aperto la strada verso la normalizzazione ripristinando l’ambasciata a Damasco nel 2018 e accogliendo l’anno scorso Assad ad Abu Dhabi, in quella che è stata la sua prima visita in un paese arabo nell’arco di un decennio. La Giordania, paese vicino della Siria e un tempo sostenitrice discreta dell’opposizione siriana, ha modificato a sua volta l’atteggiamento nei confronti di Assad in modo significativo. Ora è il turno della Turchia, avversaria feroce di Assad in nome della lotta contro i curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) ma anche della visione post-ottomana del presidente Recep Tayyip Erdoğan: Ankara sta tastando le acque di un possibile riavvicinamento con Damasco.
Il Medio Oriente è in piena effervescenza diplomatica
A manovrare i fili c’è la Russia. All’inizio di gennaio Mosca e Ankara si sono accordate in linea di principio per un incontro a tre, con la Siria, al livello dei ministri degli esteri. La data non è stata ancora annunciata, ma se l’incontro dovesse effettivamente esserci segnerebbe una grande svolta diplomatica. La Russia, protagonista del salvataggio di Assad con il suo intervento militare a partire dal 2015, oggi raccoglie i frutti di quella scelta in piena invasione dell’Ucraina, un evento che sembra non preoccupare molto il Medio Oriente.
Il reintegro progressivo della Siria, prima all’interno del mondo arabo nonostante diversi ostacoli e poi oltre i suoi confini, è il riflesso dei grandi cambiamenti in corso nella regione. Il Medio Oriente è in piena effervescenza diplomatica, tra gli accordi di Abramo che legano Israele e diversi paesi arabi, la “riconciliazione” tra Qatar e Arabia Saudita (ma anche tra Turchia, Egitto e Arabia Saudita), la manifesta perdita di influenza degli Stati Uniti e la vicenda iraniana, che pesa enormemente sulle posizioni e sui comportamenti di tutti gli attori coinvolti.
I paesi occidentali sono largamente esclusi da queste ricomposizioni. Gli Stati Uniti, in particolare, scoraggiano per il momento qualsiasi apertura nei confronti della Siria e restano fedeli al Caesar act, la legge del 2019 (ispirata dallo pseudonimo del fotografo che aveva diffuso le prove delle atrocità del regime siriano) che vieta di dialogare con Damasco.
La vicenda della Siria è strettamente collegata alla crisi ucraina, prima di tutto a causa del ruolo della Russia di Putin, che ha saputo riempire il vuoto lasciato dall’amministrazione Obama nel 2013 e ha trasformato la Siria nel trampolino di lancio della sua rinascita militare; ma anche perché la sfida lanciata all’ordine internazionale dall’invasione russa e le reazioni esitanti dei paesi del sud dimostrano che la realpolitik è tornata in auge. La guerra in Ucraina, dunque, non fa che accelerare il rimescolamento geopolitico, che sarà in gran parte determinato dall’esito del conflitto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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