Il 21 marzo il parlamento ugandese ha adottato una legge che prevede il carcere a vita per chi ha relazioni omosessuali o anche per chi si rende colpevole di “promozione” dell’omosessualità. La norma infligge addirittura la pena di morte a una persona sieropositiva che abbia rapporti sessuali con un altro individuo del suo stesso sesso. Solo due deputati su 389 hanno votato contro la legge, tra le più repressive al mondo.

L’Uganda, paese dell’Africa orientale che vive sotto il regime autoritario di Yoweri Museveni da 37 anni, ha inasprito le leggi esistenti, ereditate dalla colonizzazione britannica. La nuova legge, in generale, si inscrive in un clima omofobo che regna in buona parte del continente.

Solo un paese africano, il Sudafrica, ha legalizzato il matrimonio per tutti, nel 2006. Un altro paese dell’Africa australe, il Botswana, ha cancellato la criminalizzazione dell’omosessualità nel 2019. Ma in totale oltre la metà dei 54 stati africani presenta normative più o meno repressive che prevedono pene detentive per gli omosessuali. Anche nei paesi dove la legge non la vieta, l’omosessualità resta comunque un tabù e le persone lgbt+ sono in pericolo costante.

Una valenza politica
Esiste una sorta di fraintendimento nel continente africano: molti, infatti, considerano l’omosessualità come un fenomeno importato dall’occidente. Non solo questa tesi è storicamente assurda, ma è anche in contraddizione con il fatto che proprio le leggi coloniali, in particolare quelle britanniche e portoghesi, erano molto severe nei confronti dei gay.

Questa idea di un’importazione dell’omosessualità si è diffusa nel contesto della lotta contro l’aids e dell’azione di prevenzione ed educazione di numerose ong occidentali o finanziate da istituzioni occidentali. Paradossalmente l’omosessualità è stata condannata spesso in nome di un cristianesimo conservatore. La chiesa anglicana dell’Uganda ha votato per separarsi da quella inglese quando quest’ultima si è mostrata tollerante nei confronti delle persone lgbt+.

Non basta puntare il dito e accusare i paesi africani che reprimono l’omosessualità per migliorare la situazione

La questione dell’omosessualità ha assunto una valenza politica, entrando a far parte del sentimento di ostilità nei confronti dell’occidentalizzazione, percepita come una liberalizzazione dei costumi oltre che come un dominio economico e ideologico.

La questione, dunque, è più vasta di quanto di possa pensare, soprattutto se consideriamo che la Russia di Putin, nel suo rifiuto dell’occidente, non manca mai di citare il matrimonio per tutti e quella che definisce come una “depravazione dei costumi”. Mosca usa questo argomento nelle sue campagne di propaganda in Africa, aperte o indirette che siano. La Russia presenta l’omosessualità come un marchio della società e della civiltà dell’occidente, considerato in piena decadenza.

Questa dinamica rende particolarmente complesso il dibattito internazionale sui diritti della persone lgbt+. Non basta puntare il dito e accusare i paesi africani che reprimono l’omosessualità per migliorare la situazione. Anzi, in questo modo si ottiene l’esatto contrario. Vi ricordate la polemica scatenata l’anno scorso quando il calciatore senegalese del Paris Saint-Germain Idrissa Gana Gueye si è rifiutato di indossare una maglia con i colori arcobaleno? In fondo è facile condannare partendo dal confronto con l’Europa liberale.

Come possiamo difendere i diritti della comunità lgbt+ senza scadere in una contrapposizione controproducente tra nord e sud del mondo o in un giudizio morale dal sapore neocoloniale? In ogni caso è difficile restare indifferenti quando leggi repressive come quella ugandese calpestano diritti umani inalienabili. Si tratta evidentemente di uno dei temi più complicati del rapporto tra Europa e Africa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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