Qualche mese fa, quando volevamo ancora credere che la primavera araba non fosse definitivamente morta, citavamo con prudenza i casi della Tunisia e del Sudan. La Tunisia, paese dove è partita l’ondata di rivolte democratiche, ha ormai operato una svolta autoritaria preoccupante con il presidente Kais Saied. Il Sudan, invece, da due giorni è in preda a violenti scontri tra due schieramenti militari, con decine di morti.

Questo immenso paese, cerniera tra il mondo arabo e quello africano, ha vissuto nel 2018 la seconda ondata di rivolte democratiche. All’epoca era governato da tre decenni dalla dittatura islamista di Omar al Bashir. Dopo una serie di imponenti manifestazioni a cui hanno partecipato tutte le frange della società, nel 2019 Al Bashir è stato deposto dall’esercito.

Da allora il Sudan ha cercato di trovare un equilibrio tra le rivendicazioni della società civile, attiva e molto strutturata, e l’esercito, che non vuole mollare la presa. Il 15 aprile è cominciata una prova di forza tra due rami dell’esercito, e tra le vittime ci sono numerosi civili e operatori umanitari, finiti tra due fuochi.

Processo arenato
Se alla testa di un paese ci sono due uomini forti, uno è sicuramente di troppo. Lo stesso vale quando a contendersi il dominio ci sono due gruppi armati. Gli scontri sono stati innescati dalle Forze di sostegno rapido, una milizia guidata dal generale Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. In passato Hemetti è stato accusato di abusi in Darfur e di aver massacrato i manifestanti a Khartoum.

Hemetti è legato agli Emirati Arabi Uniti, a cui ha fornito effettivi in cambio di denaro per la guerra in Yemen, nonché alla compagnia militare privata russa Wagner, con cui intrattiene rapporti d’affari.

Nelle città del Sudan è in corso una battaglia sanguinosa tra due leader e due clan militari

Il suo bersaglio è il capo della transizione, un altro generale. Si tratta di Abdel Fattah al Burhan, alla guida dell’esercito regolare e installato al potere dopo l’estromissione di Al Bashir con il via libera dell’Egitto del suo amico Al Sisi. Da allora Al Burhan ha negoziato un compromesso con i civili, ma il processo si è arenato.

Oggi nelle città del Sudan è in corso una battaglia sanguinosa per la conquista del potere tra due leader e due clan militari.

Lo scontro rischia di cancellare quattro anni di lotte per la democrazia. La società civile sudanese è solida e dotata di organizzazioni professionali potenti, a cominciare da quelle dei medici e degli ingegneri, ma si scontra da sempre con un esercito che non vuole rinunciare al suo potere né ai privilegi economici.

Nel corso dell’ultimo decennio le aspirazioni verso la libertà, nate nel 2011 in Tunisia, si sono infrante contro una serie di ostacoli. Dominio islamista, controrivoluzione conservatrice, guerre civili, disincanto della popolazione: le ragioni dell’insuccesso sono numerose.

In Tunisia come in Sudan, gli attori della società civile non hanno avuto né la forza né la coerenza per prevalere. I due paesi, dunque, entrano a far parte della lunga lista di fallimenti democratici. Almeno per ora.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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