Khader Adnan non era uomo mansueto. Esponente di 45 anni dell’organizzazione radicale palestinese Jihad islamica, era arrivato alla sua decima incarcerazione in Israele e al terzo sciopero della fame. L’ultimo gli è stato fatale, dopo 86 giorni di digiuno cominciato il 5 febbraio scorso, quando era stato arrestato. Adnan abitava a Jenin, in Cisgiordania. Il 2 maggio è stato trovato privo di sensi nella sua cella e dichiarato morto all’arrivo in ospedale.
Le autorità sostengono che il prigioniero avesse rifiutato qualsiasi forma di alimentazione e di cure, ma una ong medica israeliana afferma che lo stato aveva invece respinto una richiesta di ricovero a causa di un deterioramento del suo stato di salute.
La Jihad islamica ha definito “un martire” Adnan, accusato in Israele di avere “sostenuto il terrorismo”. Diversi razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza, feudo dell’organizzazione.
La legge del taglione
La vedova del militante si è rivolta ai vertici del gruppo: “Non avete fatto niente per salvarlo da vivo, dunque non dovete fare niente nemmeno dopo la sua morte. Spetterà ai miei nove figli vendicare il padre, quando sarà il momento”. La legge del taglione, evidentemente, non sparirà in tempi brevi.
La vicenda di Adnan segna l’ennesimo episodio drammatico nel grave deterioramento della situazione in corso ormai da mesi. Dall’inizio dell’anno si contano più di cento morti, quasi tutti palestinesi.
Perché la pace tra israeliani e palestinesi sembra impossibile
Il peggioramento era stato forte già l’anno scorso, in assenza di qualsiasi prospettiva politica per gli abitanti dei territori occupati. Poi ha subìto un’accelerata con la formazione del governo più sbilanciato a destra nella storia di Israele. L’esecutivo, presieduto da Benjamin Netanyahu, comprende un’estrema destra amante delle maniere forti nei confronti di ogni genere di attivismo palestinese.
L’intransigenza nei confronti di un esponente di un gruppo terrorista in sciopero della fame fa parte della tipica posizione dell’estrema destra israeliana in merito alla sicurezza. I rappresentanti di questa corrente, legati al movimento delle colonie, ritengono che i territori occupati costituiscano il “grande Israele” e che i residenti palestinesi dovrebbero togliersi di mezzo.
In Israele sono in corso due conflitti paralleli: il primo, che attira l’attenzione dei mezzi d’informazione, oppone una parte della popolazione ai progetti istituzionali della coalizione di governo, considerati illiberali; il secondo, invece, riguarda il destino dei territori palestinesi, ormai in stallo da anni.
Tra queste due crisi al momento non esistono punti di contatto. I manifestanti israeliani che si oppongono alla riforma della giustizia voluta dal governo evitano di sollevare la questione palestinese, anche per mantenere un consenso più ampio possibile. Anche perché, di fatto, non hanno una soluzione da proporre.
Parte dell’equazione deriva dalla durata di questa coalizione, di cui fanno parte estremisti che non accettano di fare alcuna concessione, né sulle riforme né tantomeno sui palestinesi. La tregua per la Pasqua ebraica decretata da Netanyahu è terminata, e l’ora della verità si avvicina.
Dalla prospettiva palestinese, invece, si tratta di un conflitto strisciante, quotidiano e senza speranze. Khaled Adnan è l’ennesimo morto in una lista che si allunga ogni giorno che passa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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