È la prima buona notizia in 46 giorni di guerra. Il 21 novembre Israele ha accettato un piano che prevede una tregua di quattro giorni e la liberazione di alcuni degli ostaggi detenuti da Hamas: trenta bambini e venti donne in cambio di 150 palestinesi che si trovano nelle carceri israeliane, anche in questo caso donne e bambini. Resta da capire cosa succederà dopo.

Prima di tutto bisognerà applicare l’accordo negoziato grazie alla mediazione del Qatar, che ha un ruolo essenziale in questa fase. La trattativa è complessa, perché contrariamente agli scambi tra ostaggi e prigionieri del passato, si svolge in tempi di guerra.

Sul fronte palestinese, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, è a Doha ma non prende le decisioni autonomamente, perché deve prima ottenere l’assenso dei dirigenti dell’ala militare, nascosti nella Striscia di Gaza. Per inviare un messaggio e ricevere una risposta servono 24 ore, perché le comunicazioni sono tutt’altro che semplici.

Sul fronte israeliano bisognava costruire un consenso attorno all’accordo. L’estrema destra alleata di Benjamin Netanyahu si è opposta, spinta da una logica molto aggressiva, che metteva anche in conto la morte degli ostaggi israeliani. Ma l’opposizione di questi partiti screditati alla fine è stata ignorata. Una dinamica che lascerà tracce profonde.

E ora? Questa è la domanda più difficile. La tregua durerà quattro giorni, durante i quali si procederà allo scambio di ostaggi e prigionieri, a far arrivare gli aiuti umanitari a Gaza e a consegnare carburante nella Striscia. Che succederà dopo? I combattimenti ricominceranno dopo una semplice parentesi?

La sera del 21 novembre Netanyahu si è impegnato con il suo governo a riprendere le ostilità. Ma i diplomatici di molti paesi lavorano per prolungare la tregua, anche solo per avere la possibilità di ottenere la liberazione di altri ostaggi.

Il dilemma di Israele dovrà essere risolto durante i pochi giorni di pausa nelle operazioni militari. L’esercito israeliano ha raso al suolo la parte nord della Striscia di Gaza, distruggendo le infrastrutture di Hamas e uccidendone molti miliziani. Ma è lontano dal suo obiettivo di cancellare il movimento islamista.

Riprendere la guerra non sarà semplice. Prima di tutto perché l’accettazione di una prima tregua moltiplicherà gli appelli per un cessate il fuoco, come quello lanciato il 21 novembre da alcuni paesi dei Brics – Cina, Russia, Sudafrica e altri – che porteranno il messaggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

In secondo luogo bisogna considerare che gli statunitensi subiscono una forte pressione interna ed esterna, e hanno fatto sapere che non sosterranno un’offensiva israeliana nel sud della Striscia di Gaza senza un piano che permetta di ridurre il numero di vittime civili. Le agghiaccianti immagini in arrivo da Gaza rappresentano un vero fattore politico. A Israele non interessano, ma gli alleati occidentali non possono più ignorarle.

Infine, la pressione sta crescendo anche per trovare una soluzione politica al problema palestinese. Prolungare la guerra non risolverà niente. Accettando il negoziato per salvare gli ostaggi, Israele ha frenato la propria logica di guerra. Ma non è ancora detto che possa imporsi una logica di pace.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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