Come fermare la guerra nella Striscia di Gaza, che dura ormai da quattro mesi e ha già avuto un costo umano catastrofico? La domanda si ripresenta regolarmente dall’inizio delle ostilità, ma ora è diventata ancora più urgente dopo la minaccia di un’offensiva israeliana contro Rafah, che ospita 1,4 milioni di palestinesi, in gran parte fuggiti da altri centri della Striscia. Queste persone non hanno più un altro posto dove scappare.

La data fissata è l’inizio del mese di Ramadan, intorno al 10 marzo, ovvero fra tre settimane. Israele dice che lancerà la sua offensiva su Rafah se i 130 ostaggi non saranno liberati entro quel giorno. La minaccia non arriva dal primo ministro Benjamin Netanyahu, ma dal suo avversario politico Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra. È come se i due volessero mostrare al mondo di essere uniti in vista di un attacco contro cui i paesi occidentali già protestano.

Allo stesso tempo il negoziato al Cairo, a cui partecipano da un lato il Qatar, l’Egitto e delegati di Hamas, e dall’altro Israele e gli Stati Uniti, è bloccato. L’idea di una tregua che permetta di scambiare gli ostaggi con alcuni prigionieri e di far arrivare a Gaza gli aiuti umanitari si allontana sempre di più. Dunque non resta che la guerra.

Il mese del Ramadan è un periodo cruciale per il mondo musulmano, e molti vorrebbero che la guerra si concludesse prima del suo inizio. Minacciando invece di avviare un’offensiva proprio in quel periodo, Israele dimostra che la sua determinazione non è diminuita dal massacro del 7 ottobre, nonostante le pressioni internazionali.

Intanto il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell’estrema destra, ha proposto un piano che prevede forti restrizioni durante il Ramadan per accedere alla spianata delle moschee di Gerusalemme, luogo di riferimento per i palestinesi musulmani. Una mossa rifiutata dai palestinesi d’Israele, che al contrario degli abitanti dei territori occupati hanno dei diritti in quanto cittadini dello stato ebraico.

In ogni caso tutti prevedono che il Ramadan segnerà un momento decisivo nel conflitto, in un clima di scontro senza limiti.

Esistono solo due scenari in cui i combattimenti potrebbero fermarsi. Il primo è quello in cui Israele ritenga di aver raggiunto i suoi obiettivi e possa proclamare una vittoria, ma non sembra questo il caso. Il secondo è quello in cui le pressioni internazionali si facciano finalmente sentire, ma anche questa è solo una speranza.

La situazione, intanto, è sempre più critica, con 29mila palestinesi uccisi dall’esercito israeliano e centinaia di migliaia di feriti, secondo le cifre di Hamas, che non sono state smentite dalle organizzazioni umanitarie. Il sistema sanitario è al tracollo. Negli ultimi giorni Israele ha attaccato anche l’ospedale Nasser a Khan Yunis, dove sostiene di aver catturato alcuni combattenti di Hamas.

C’è ancora la possibilità che le pressioni internazionali producano un risultato. In questo momento le voci occidentali contro un attacco a Rafah o a favore di un cessate il fuoco si fanno più forti, perfino con la minaccia di un riconoscimento dello stato palestinese: tre giorni fa Emmanuel Macron ha dichiarato che non si tratta più di un tabù. Ma per il momento non si muove nulla. Il conto alla rovescia verso l’inizio del Ramadan è partito, ed è un conto alla rovescia verso l’ignoto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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