In un contesto sempre più tragico, l’unica nota di ottimismo è che i negoziati per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza stanno andando avanti. Durante il precedente giro di trattative il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva respinto nettamente le richieste di Hamas per la liberazione degli ostaggi. Stavolta, dopo un incontro organizzato a Parigi il 23 febbraio tra i capi dei servizi d’informazione americani, israeliani, egiziani e qatarioti, è stato invece delineato un quadro d’intesa di massima. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione del proprio governo, il 26 febbraio i negoziatori israeliani partiranno per Doha, in Qatar, dove porteranno avanti il negoziato. Hamas, parallelamente, discuterà con il Qatar e con l’Egitto.

La sera del 25 febbraio Jake Sullivan, consulente per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, si è detto fiducioso in merito alla possibilità di ottenere un cessate il fuoco “nei prossimi giorni”. Evidentemente bisogna mantenere la prudenza fino a quando l’accordo non sarà concluso, ma ci sono diverse ragioni per pensare che la situazione possa sbloccarsi.

Il primo ministro israeliano è sottoposto a pressioni contrastanti: da un lato quelle della sua coalizione di estrema destra che vuole continuare a martoriare i palestinesi, dall’altro quelle di una parte della popolazione che chiede a gran voce la liberazione degli ostaggi. La società israeliana è divisa. La sera del 24 febbraio, a Tel Aviv, una massa enorme di persone ha protestato chiedendo elezioni anticipate.

A questo clima di divisione bisogna aggiungere la posizione degli Stati Uniti, che passo dopo passo si fa sempre più rigida nei confronti del bulldozer Netanyahu. Sullivan ormai non esita a usare l’espressione “cessate il fuoco”, laddove in precedenza preferiva parlare di “tregua”. Washington ha accolto con fastidio l’annuncio della creazione di nuove colonie in Cisgiordania, una provocazione inutile in tempo di guerra. Infine gli americani difendono un’idea del dopoguerra che è agli antipodi rispetto a quella presentata da Netanyahu, con un mantenimento all’infinito dell’occupazione.

Finora gli Stati Uniti hanno espresso il proprio disaccordo senza voler forzare la mano a Israele, e questo nonostante l’enorme prezzo politico che l’amministrazione Biden sta pagando per il suo veto all’Onu e nella politica interna americana. Il negoziato ci farà capire se Washington stavolta è riuscita davvero a pesare sulle scelte di Israele.

Il momento è significativo: lo stato ebraico continua a minacciare un’offensiva nella città di Rafah, dove sono concentrati 1,4 milioni di palestinesi, in gran parte rifugiati. Costringerli a spostarsi nuovamente è impossibile. In questo contesto un attacco avrebbe conseguenze devastanti per i civili. Il mondo intero ha messo in guardia Israele contro questo scenario.

La situazione umanitaria, intanto, è già oltre lo stadio critico. Gli aiuti non arrivano in quantità sufficienti e questo alimenta la rabbia delle persone e un’insicurezza che impedisce ai soccorsi di raggiungere i più indifesi.

Ultimo punto: il ramadan comincerà tra appena due settimane, attorno al 10 marzo. Un cessate il fuoco, probabilmente di una durata di sei settimane, permetterebbe di portare sollievo ai civili, di ridurre la tensione regionale durante il mese della festa religiosa e di liberare gli ostaggi e i prigionieri, attesi da entrambe le parti.

Mettere fine a una guerra è sempre difficile, ma se questa occasione non sarà colta sarà una spaventosa tragedia, sia sul piano umanitario sia su quello politico.

Traduzione di Andrea Sparacino

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