Un tabù è stato infranto. Per la prima volta dal 7 ottobre, gli Stati Uniti hanno consentito che fosse approvata una risoluzione per chiedere una tregua immediata nella Striscia di Gaza. Negli ultimi mesi Washington aveva fatto ricorso al veto per tre volte al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre il 22 marzo aveva presentato una proposta per il cessate il fuoco, che però era stata bloccata da un doppio veto di Cina e Russia. Stavolta, invece, gli statunitensi si sono astenuti, mentre russi e cinesi hanno votato a favore.

La risoluzione, presentata da un gruppo di stati del nord e del sud del mondo, “esige un cessate il fuoco umanitario immediato per il mese di Ramadan, ovvero per le prossime due settimane, che porti a un cessate il fuoco duraturo”. Nel testo è inoltre pretesa la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma le due richieste non sono vincolate l’una all’altra.

È una svolta politica importante, prima di tutto perché gli Stati Uniti hanno espresso il proprio malcontento rifiutandosi di cedere alle pressioni del primo ministro israeliano affinché usassero il diritto di veto. Benjamin Netanyahu, furioso, ha subito annullato il viaggio a Washington di una delegazione israeliana che avrebbe dovuto discutere gli sviluppi dell’operazione nella Striscia di Gaza.

Per quanto indebolito, il Consiglio di sicurezza resta la principale istituzione di governo mondiale. Le sue risoluzioni hanno un valore morale e politico, anche se l’Onu non ha i mezzi per farle rispettare (a meno di avviare un complicato processo basato sulle sanzioni).

Ignorando la richiesta di un cessate il fuoco immediato Israele si troverebbe in una posizione delicata. Nel frattempo il dibattito sull’interpretazione del testo è già partito: il governo israeliano sostiene che il cessate il fuoco sia subordinato alla liberazione degli ostaggi, ma la risoluzione non lo dice. La prima reazione di Netanyahu non lascia certo presagire un’interruzione imminente delle operazioni militari.

Al contrario, il primo ministro israeliano si oppone da giorni alla richiesta degli Stati Uniti e del resto del mondo di rinunciare a un’operazione nella città di Rafah, dove sono concentrati più di un milione di palestinesi.

L’astensione di Washington in occasione del voto del 25 marzo solleva un grande interrogativo a proposito dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Da settimane l’amministrazione Biden cerca di influenzare le scelte operative dello stato ebraico, a cui gli americani consegnano armi e munizioni, oltre a garantire un totale sostegno politico. Ma Netanyahu va avanti per la sua strada e si rifiuta di fare qualsiasi concessione a Joe Biden.

Se Israele non rispetterà l’appello delle Nazioni Unite, la prossima tappa sarà molto delicata. Un modo per uscire dal prevedibile vicolo cieco sarebbe quello di trovare un accordo in Qatar, dov’è in corso una trattativa per concordare una tregua che permetta uno scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza. A quel punto la sconfitta diplomatica di Netanyahu sarebbe smorzata dal ritorno a casa degli ostaggi.

Israele avrebbe molto da perdere dall’isolamento a cui inevitabilmente andrebbe incontro con un gesto di sfida nei confronti dell’Onu. Con la loro astensione, gli statunitensi hanno accelerato un dibattito interno allo stato ebraico: fino a che punto bisogna spingersi, soprattutto considerando che il primo ministro israeliano ha perso il sostegno del suo principale protettore? La crisi drammatica aperta lo scorso 7 ottobre è appena entrata in una fase decisiva.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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