Il 20 maggio il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha compiuto un gesto dalle conseguenze enormi. In un intervento accuratamente preparato, Khan ha chiesto di spiccare dei mandati d’arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, del suo ministro della difesa Yoav Gallant e dei tre principali dirigenti di Hamas: Yahya Sinwar, Mohamed Deif e Ismael Haniyeh.
La scelta di mettere sullo stesso piano le autorità israeliane e quelle del movimento che ha organizzato gli attacchi del 7 ottobre ha provocato reazioni di sdegno in Israele (dove si grida all’antisemitismo) ma anche negli Stati Uniti. Eppure questa è la base del metodo di Khan: il procuratore si attiene al diritto e denuncia le violazioni di entrambe le parti, in sintonia con la maggioranza della popolazione mondiale, che ritiene inaccettabili i metodi adottati da Israele a Gaza.
La vicenda rivela ancora una volta la spaccatura tra l’occidente e quello che chiamiamo sud globale e le percezioni diverse dell’ordine internazionale.
Per capire la situazione bisogna tornare indietro, all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022. All’epoca, quando gli occidentali hanno denunciato la violazione del diritto internazionale, una parte dei paesi del sud ha ritenuto che evocare quel tipo di posizione fosse frutto di due pesi e due misure.
In quest’ottica gli occidentali sono chiaramente in contraddizione. L’anno scorso hanno elogiato la Cpi per aver emesso un mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. Oggi invece Joe Biden insorge contro la decisione di Khan su Netanyahu. Gli Stati Uniti hanno addirittura fatto presente che “l’azione non farà altro che rafforzare Hamas” e impedire un cessate il fuoco.
Ma la verità è che il procuratore esercita semplicemente il suo ruolo quando denuncia l’utilizzo della fame come arma di guerra da parte di Israele, così come quando accusa Hamas di sterminio, assassinio, rapimento, stupro e tortura. La posizione della Cpi risulta inattaccabile anche nella richiesta di liberare gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, in nome della morale e del diritto internazionale umanitario.
Le conseguenze di questa vicenda si faranno sentire su due livelli. Il primo riguarda Israele, dove la reazione immediata sarà quella di fare quadrato attorno al primo ministro a prescindere dai dubbi sul suo operato. È un riflesso naturale, ma Netanyahu deve già subire l’attacco politico di Benny Gantz, il suo principale rivale che però fa anche parte del gabinetto di guerra. Malgrado le dichiarazioni di solidarietà, il primo ministro potrebbe risultare indebolito dalla minaccia di un mandato d’arresto.
Di contro, anche la giustizia internazionale subirà le conseguenze di questo gesto. In Israele e negli Stati Uniti si moltiplicano gli appelli a sanzionare la Corte penale internazionale. La Cpi, considerata un grande passo avanti al momento della sua nascita nel 2002, oggi rischia di diventare obsoleta. Il mandato d’arresto nei confronti Putin non ha cambiato nulla nel conflitto ucraino, e lo stesso rischia di succedere con quello contro Netanyahu, per mancanza di consenso.
La vicenda, infine, evidenza il crescente isolamento di Israele mentre prosegue la guerra a Gaza. Lo stato ebraico ha dalla sua la forza delle armi, ma sta perdendo la battaglia nell’opinione pubblica mondiale. In questo senso il procuratore della Corte penale internazionale ha indebolito ulteriormente la posizione di Israele.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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