António Guterres non ha altro potere se non quello delle parole. Il 22 settembre il segretario generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che il Libano rischiava di diventare “un’altra Gaza”, e il giorno successivo la sua profezia si è avverata: Israele ha cominciato ad applicare il metodo Gaza nel sud del paese.

Nelle ultime ore i jet israeliani hanno colpito più di mille obiettivi, con un bilancio di oltre quattrocento morti e mille feriti. Le bombe sono precipitate anche sulla periferia sud di Beirut per eliminare il nuovo capo militare di Hezbollah, nominato dopo la morte del suo predecessore la settimana scorsa. In Libano è stato il giorno più tragico degli ultimi undici mesi.

Fino alla scorsa settimana il conflitto tra Israele ed Hezbollah rispettava una regola sottintesa, quella della proporzionalità. Da quando il movimento filoiraniano ha cominciato le ostilità, lo scorso 8 ottobre in solidarietà con Hamas, le schermaglie hanno sempre rispettato la regola, con un’escalation progressiva e proporzionale. Ma ora le cose sono cambiate.

Il governo israeliano minacciava da settimane di intraprendere un’azione militare massiccia se Hezbollah avesse continuato a impedire, con i suoi attacchi regolari, il ritorno di decine di migliaia di civili israeliani evacuati dalle città del nord. La settimana scorsa Tel Aviv ha aggiunto il ritorno a casa degli sfollati agli obiettivi di guerra.

Ma perché accelerare proprio ora? Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha colto una doppia occasione. La prima era la tentazione di indebolire Hezbollah, che ha subìto diversi attacchi senza mai reagire davvero, segno che vuole assolutamente evitare uno scontro diretto. Negli ultimi otto giorni Israele ha moltiplicato gli affondi contro il movimento sciita, dall’esplosione dei cercapersone all’eliminazione degli alti ufficiali, fino ai bombardamenti a tappeto del 23 settembre. La credibilità di Hezbollah è ai minimi storici.

La seconda occasione era quella di protrarre uno stato di guerra che favorisce politicamente Netanyahu. È quello che pensano molti israeliani schierati all’opposizione, convinti che il primo ministro stia prendendo tempo in vista delle elezioni statunitensi del 5 novembre, nella speranza di una vittoria di Donald Trump.

Il rischio di un allargamento del conflitto è costante, ma Israele ritiene che il rapporto di forze gli sia favorevole. A questo punto il pericolo è doppio: innanzitutto aleggia l’ipotesi di un intervento terrestre israeliano, che cambierebbe radicalmente la situazione sul campo. Davvero Israele potrebbe ristabilire la sicurezza per gli abitanti del nord unicamente attraverso i bombardamenti aerei, distruggendo le scorte di missili di Hezbollah? Sembra difficile. Alcuni esperti, anche all’interno del governo israeliano, vorrebbero la creazione di una nuova zona di sicurezza alla frontiera, ma le esperienze degli anni ottanta e novanta hanno lasciato pessimi ricordi.

La seconda incognita riguarda l’atteggiamento dell’Iran, che assiste alla crisi del suo principale alleato nel mondo arabo, Hezbollah. Se permettesse una sua sconfitta, Teheran perderebbe gran parte della sua credibilità, ma allo stesso tempo neanche gli iraniani vogliono uno scontro diretto con lo stato ebraico e di conseguenza, inevitabilmente, con gli Stati Uniti.

Per il momento gli israeliani approfittano del loro vantaggio senza preoccuparsi (come a Gaza) né del numero di vittime né dell’orrore che suscita nel mondo l’allargamento della guerra a un paese già gravemente ferito come il Libano.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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