L’Iran doveva scegliere tra due mali: non rispondere all’assassinio del capo di Hezbollah e all’offensiva di Israele in Libano, perdendo in questo modo la propria credibilità, oppure reagire accettando il rischio di provocare rappresaglie da parte di Tel Aviv e forse anche degli Stati Uniti. Teheran ha optato per la seconda soluzione, prolungando l’escalation brutale che da settimane travolge la regione.

Negli ultimi giorni la maggior parte degli analisti ha sottolineato la relativa moderazione delle reazioni iraniane dopo l’omicidio di Hassan Nasrallah a Beirut, concludendo che Teheran non avrebbe risposto a caldo all’eliminazione del suo principale alleato per non offrire a Israele il pretesto per attaccare le strutture nucleari del paese. Questa teoria era senza dubbio troppo razionale e non teneva conto della rabbia dei sostenitori di Hezbollah davanti alla passività dell’alleato iraniano. Alcuni libanesi avevano addirittura parlato di “tradimento”. Per i leader della rivoluzione islamica è stata un’umiliazione da cui probabilmente è nata la decisione di attaccare Israele il 1 ottobre.

Gli israeliani hanno immediatamente fatto sapere che l’offensiva iraniana non resterà senza risposta e di avere pronti i piani per un contrattacco. Al momento sembra che in Israele non ci siano state vittime, anche perché la maggior parte dei 180 missili iraniani sarebbe stata intercettata dalla difesa aerea israeliana, con l’aiuto degli Stati Uniti.

L’unico interrogativo, a questo punto, riguarda la portata dell’imminente risposta di Israele. Ad aprile dell’anno scorso, dopo il primo lancio di missili iraniani contro lo stato ebraico, la risposta era stata “proporzionata”, come si dice in gergo militare. Israele mostrerà la stessa moderazione in un momento in cui è impegnato in Libano ma anche in Yemen e in Siria contro gli alleati dell’Iran?

Il ruolo degli Stati Uniti sarà determinante per stabilire la violenza della reazione. Washington non ha molta influenza su Benjamin Netanyahu, ma trattandosi dell’Iran è chiaro che Israele ha bisogno della copertura americana in caso il conflitto esploda.

Il programma nucleare può davvero rappresentare un obiettivo? È il punto centrale della trattativa con gli Stati Uniti. Da anni il primo ministro israeliano sogna di bloccare l’avanzamento del progetto iraniano. I servizi di sicurezza israeliani hanno assassinato diversi scienziati e condotto ciberattacchi, ma esistono anche piani per condurre raid aerei e far tornare indietro di diversi anni il programma.

Autorizzando l’attacco del 1 ottobre, la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei si è assunto il rischio di queste rappresaglie e dunque di mettere in pericolo il progresso verso l’atomica. È una scelta pesante per un regime indebolito sul fronte interno dalla contestazione di una fetta della società e dagli effetti delle sanzioni economiche.

Ma è anche vero che l’Iran può contare su nuovi amici come la Russia, a cui fornisce droni per la guerra in Ucraina, e la Cina, partner all’interno di un fronte antioccidentale. Queste potenze alleate sono rimaste in disparte durante la crisi in corso, ma cosa farebbero in caso di attacco sul suolo iraniano? Il momento, a pochi giorni dal primo anniversario del fatidico 7 ottobre 2023, è particolarmente pericoloso. A un anno dall’attacco compiuto da Hamas contro Israele, il rischio di una degenerazione del conflitto è più alto che mai.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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