Di solito, in tempi meno complicati di quelli che stiamo vivendo, la politica estera non ha grandi conseguenze sulle elezioni statunitensi. Il 2 ottobre, invece, il primo argomento affrontato durante il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, JD Vance e Tim Walz, è stata la situazione in Medio Oriente, anche perché l’Iran aveva appena lanciato i suoi missili contro Israele. Difficile parlare d’altro.
Di fatto i due grandi conflitti in corso, quello ucraino e quello mediorientale, sono tra gli argomenti in cui appare più chiara la distanza tra i due candidati, Donald Trump e Kamala Harris.
Gli elettori statunitensi sono interessati soprattutto al potere d’acquisto o al diritto all’aborto, ma non possono ignorare che la loro scelta determinerà chi sarà il capo della prima potenza mondiale in un momento segnato dal caos. In ogni caso, non è detto che gli statunitensi abbiano tutti gli elementi per prendere una decisione ponderata il prossimo 5 novembre.
Il 2 ottobre i candidati vicepresidenti si sono scambiati accuse sull’Iran piuttosto difficili da decifrare per il telespettatore poco informato. Ma l’argomento resta cruciale. Walz, democratico, ha rimproverato a Donald Trump di aver commesso un grave errore ritirando gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, nel 2018. L’intesa era stata raggiunta durante l’amministrazione Obama. Trump, facendo un passo indietro, ha permesso a Teheran di riprendere il programma di arricchimento dell’uranio che oggi gli consente di avvicinarsi alla soglia nucleare.
Vance ha contrattaccato accusando i democratici di aver versato all’Iran decine di milioni di dollari che a suo dire sarebbero stati utilizzati per fabbricare i missili lanciati verso Israele. Tuttavia, il candidato repubblicano ha dimenticato di precisare che si trattava di denaro iraniano congelato negli Stati Uniti e sbloccato in cambio dell’impegno di Teheran a fermare il proprio programma nucleare. Questo tipo di dibattito non permette al pubblico di cogliere la complessità della posta in gioco, ma si riduce a una sfida per accaparrarsi voti.
Anche sul conflitto ucraino gli elettori non hanno informazioni sufficienti, ma quanto meno la distanza tra i due partiti è netta. Trump ha giurato che metterà fine alla guerra in 24 ore, prima ancora della cerimonia d’insediamento. Bisogna essere piuttosto ingenui per credergli, a meno di considerare l’idea di consegnare l’Ucraina a Putin una soluzione valida.
I democratici, dal canto loro, cercano di convincere gli elettori che continuare ad aiutare l’Ucraina a resistere all’invasione russa è nell’interesse degli Stati Uniti, ma incontrano grosse difficoltà perché le cifre sono astronomiche e la posta in gioco è meno chiara rispetto ai tempi della guerra fredda.
In entrambi i conflitti il ruolo degli Stati Uniti è abbastanza centrale da fare in modo che la scelta del prossimo presidente risulti decisiva. In definitiva gli elettori dovranno stabilire se fidarsi di un uomo imprevedibile come Trump o affidare a una donna, per la prima volta nella storia del paese, il ruolo di “comandante in capo” della più grande potenza mondiale.
In definitiva, comunque, le conseguenze delle elezioni statunitensi sulle crisi mondiali saranno maggiori rispetto a quelle di queste stesse crisi sulla scelta degli elettori. È una constatazione abbastanza sconfortante, considerando che il resto del mondo non vota ma subirà le conseguenze delle elezioni.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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