È una domanda per filosofi: la vittima ha sempre ragione? Un anno fa Israele ha subìto un attacco barbaro che ha colpito soprattutto i civili. L’evento ha suscitato comprensibilmente un trauma nella società israeliana, sia perché ha rivelato i punti deboli nel sistema di sicurezza di uno stato che fa della sicurezza la propria ragion d’essere sia perché questi fatti di sangue hanno riportato alla luce vecchi fantasmi.
All’epoca abbiamo capito immediatamente che la reazione di Israele sarebbe stata senza pietà. Il giorno stesso dell’attacco, infatti, Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas avrebbe pagato un prezzo “senza precedenti”.
Un anno dopo siamo tutti consapevoli del fatto che a pagare non sia stato solo il movimento islamista, ma anche i due milioni di palestinesi della Striscia di Gaza e l’intera regione. La guerra intanto continua, mentre un centinaio di ostaggi è ancora nelle mani di Hamas. L’escalation prosegue anche in Libano, dove i bombardamenti sono feroci, e in Iran. Il primo ministro israeliano ha mantenuto abbondantemente la sua promessa.
Tra tutte le reazioni a cui abbiamo assistito un anno fa, la più saggia era stata sicuramente quella di Joe Biden, che in occasione della sua visita in Israele pochi giorni dopo il 7 ottobre aveva consigliato al primo ministro israeliano di “non fare come noi”, in riferimento alla reazione americana dopo l’11 settembre 2001 e alla cosiddetta guerra contro il terrorismo scatenata dall’amministrazione Bush, con due conflitti senza fine in Iraq e Afganistan, il carcere di Guantanamo, gli episodi di tortura e una lotta cieca e insensata.
Netanyahu non ha accettato il consiglio, rispondendo alla brutalità del terrorismo con la brutalità dello stato, calpestando i diritti umani e le leggi internazionali.
Oggi Gaza è ridotta in macerie, con più di 40mila morti, secondo le cifre fornite dalle autorità controllate da Hamas (che non sono state smentite) e una popolazione costantemente sfollata e privata di ogni bene di prima necessità. Lo stesso scenario si sta ripetendo in Libano, con un milione di persone costrette a lasciare le proprie case, ovvero quasi un quarto della popolazione totale.
Parlare di punizione collettiva non significa difendere Hamas o Hezbollah, che sono indifendibili. Esattamente come Biden, parlando degli errori dopo l’11 settembre, non intendeva difendere al Qaeda.
La prima lezione di questo anno di guerra è che nessuno, dopo il 7 ottobre, ha mai negato il diritto di Israele a difendersi. Questa prerogativa è riconosciuta da tutti gli stati, dunque Israele aveva diritto a rispondere a quello che costituisce un crimine contro l’umanità.
Tuttavia, lo stato ebraico ha logorato la sua credibilità e la sua posizione commettendo a sua volta crimini contro l’umanità, che sono stati condannati dalla giustizia internazionale. Israele ha dimostrato la propria superiorità militare e tecnologica, ma questo non è bastato a garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Per questo motivo è evidente che le guerre in corso avrebbero dovuto concludersi da molto tempo.
La vera lezione di questo anno tragico, come scrive su Le Monde l’ex ambasciatore di Israele in Francia, Elie Barnavi, è che “la forza, da sola, non basta. Serve un’azione politica”. È su questo campo che Netanyahu, un anno dopo il 7 ottobre, non ha saputo dare alcuna risposta, né agli israeliani né al resto del mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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