Ismail Haniyeh, leader di Hamas, è stato assassinato a Teheran, in Iran, il 31 luglio. Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, è stato ucciso a Beirut, in Libano, il 27 settembre. Ora è morto anche Yahya Sinwar, nuova guida di Hamas e soprattutto architetto dell’attacco del 7 ottobre contro Israele, ucciso il 17 ottobre nella Striscia di Gaza. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è un triplo successo militare, che gli offre una rivincita su tutti quelli che lo criticavano da un anno.

Sinwar era l’obiettivo che mancava agli israeliani nella loro caccia ai mandanti del 7 ottobre. Diversamente dagli altri, non è stato assassinato al termine di un minuzioso lavoro di ricerca, ma in un combattimento nel sud della Striscia di Gaza. I soldati israeliani non sapevano di avere davanti il capo di Hamas.

In ogni caso la vittoria di Netanyahu va oltre le circostanze ed è evidente. Si tratta di una svolta innegabile in questa guerra cominciato un anno fa con l’attacco di Hamas in Israele e proseguita con un’azione spietata condotta dallo stato ebraico. A questo punto resta da capire cosa ne farà Netanyahu della sua vittoria.

Il primo ministro israeliano ha due opzioni: la prima è quella caldeggiata immediatamente da Washington e Parigi, ovvero dichiarare di aver vinto e negoziare la fine del conflitto, recuperando gli ostaggi e preparando una nuova fase. È l’opzione che possiamo definire più ragionevole.

L’alternativa è continuare a sfruttare il vantaggio militare e distruggere fino all’ultimo tunnel di Hamas, riproponendo la stessa strategia in Libano contro Hezbollah e preparando un attacco contro l’Iran. È l’opzione ideologica, dettata dall’idea di cui si parla da quando Israele ha ottenuto i primi successi contro Hezbollah: creare un nuovo Medio Oriente, cancellando l’influenza dell’Iran.

Oggi tutto lascia pensare che Netanyahu sceglierà la seconda opzione, anche solo per la vicinanza con la data delle elezioni americane (il 5 novembre) e in vista di una possibile vittoria di Donald Trump, che di sicuro gli lascerebbe campo libero.

Cosa può ottenere ancora Netanyahu? Di sicuro questo, per il primo ministro, è un momento da “missione compiuta”, come quello vissuto da George W. Bush nel 2003 dopo la morte di Saddam Hussein. La sensazione, in questi casi, è che tutto sia possibile.

Ma sappiamo come sono andate le cose in Iraq e in Libia: la caduta del dittatore ha spalancato le porte del caos, al gruppo Stato islamico e all’influenza iraniana in Iraq, mentre in Libia il vuoto ha creato una totale destabilizzazione regionale.

Da un anno in Israele la principale critica rivolta a Netanyahu è quella di non avere un piano per il dopo. Il rifiuto del primo ministro di consentire la nascita di uno stato palestinese rende impossibile una soluzione per il dopoguerra a Gaza, devastata e in lutto per decine di migliaia di morti. A quel punto è probabile che nascerà qualcosa di peggio di Hamas. Quanto alla Cisgiordania, il sogno di Netanyahu è quello di annetterla. Trump gli permetterebbe di sicuro di realizzarlo.

Il successo militare israeliano non sta producendo risposte politiche. Per il momento Netanyahu e l’opinione pubblica israeliana si godranno la loro vendetta grazie alla morte di un uomo che popolava i loro incubi dallo scorso 7 ottobre. I problemi arriveranno dopo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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