Parliamo di due paesi e due sistemi politici diversi, in cui anche le cause della rabbia popolare sono ben distinte. Eppure da qualche giorno in Israele e in Turchia si susseguono manifestazioni di massa contro i governi in carica. La motivazione diretta è simile: i manifestanti vogliono denunciare e impedire una deriva definita nel migliore dei casi “illiberale” e nel peggiore “dittatoriale”. L’ombra di Donald Trump non è mai troppo lontana. La presenza del miliardario alla Casa Bianca, infatti, offre ai governi in Turchia e in Israele mano libera per violare le leggi.

Il 23 marzo i due paesi hanno superato entrambi una nuova soglia nella loro deriva autoritaria. In Turchia il principale rivale del presidente Recep Tayyip Erdoğan, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, è stato incarcerato con l’accusa di corruzione e terrorismo. Negli ultimi giorni centinaia di manifestanti sono stati arrestati dalla polizia.

In Israele il governo ha votato una mozione di sfiducia contro la procuratrice generale dello stato Gali Baharav-Miara, prima tappa del processo che porterà alla sua destituzione. Alla decisione si sono opposti tutti i predecessori di Baharav-Miara e quasi tutti gli ex ministri della giustizia e gli ex presidenti della corte suprema israeliana.

In entrambi i casi assistiamo a un assalto contro chi potrebbe limitare il potere di chi governa. Si tratta di una classica manovra adottata dai leader illiberali, espressione che inizialmente indicava i governi populisti di Ungheria e Polonia, e che poi si è estesa a livello internazionale.

In Turchia il sindaco di Istanbul era sul punto di essere scelto come candidato dell’opposizione alle prossime presidenziali, in programma nel 2028. In teoria Erdoğan non potrebbe ricandidarsi, ma pochi osservatori credono che il presidente sia pronto a lasciare il potere.

In Israele il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra cercano da due anni di limitare i contrappesi. Nel primo semestre del 2023 erano state organizzate grandi manifestazioni contro il governo, fino a quando l’attacco del 7 ottobre ha cambiato radicalmente le carte in tavola. Le manifestazioni degli ultimi giorni ricordano quelle del 2023, malgrado la ripresa della guerra a Gaza e l’impasse sulla questione degli ostaggi, che sono ancora nelle mani di Hamas.

In Turchia, come in Israele, il potere politico avanza malgrado la mobilitazione di una parte della popolazione, rischiando di spaccare la società.

La stessa accusa di una deriva illiberale è rivolta da una parte degli statunitensi a Trump. Anche il presidente repubblicano cerca evidentemente di neutralizzare i meccanismi di controllo che garantiscono la solidità della democrazia americana.

L’esempio offerto da Trump incoraggia i sostenitori dell’autoritarismo in tutto il mondo, che oggi si sentono più forti.

In Turchia Erdoğan non ha aspettato la vittoria di Trump per dare sfogo alle sue tendenze autoritarie, ma ora le intensifica. Lo stesso vale per Israele, dove Netanyahu sa bene che da quando Washington si è schierata senza riserve dalla sua parte non esistono ostacoli reali alle sue ambizioni. Di sicuro il governo israeliano non è preoccupato dalle timide proteste che arrivano dall’Europa.

Queste spinte illiberali e le proteste che suscitano sono uno dei tratti caratteristici della nostra epoca di rottura, in cui la democrazia liberale fatica un po’ ovunque. È una tendenza mondiale, che riguarda senza dubbio anche l’Europa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it