Era il gennaio del 1979. Lo scià d’Iran Reza Pahlavi era appena fuggito dal paese, ma l’ayatollah Khomeini non era ancora arrivato. Era un momento di grande tumulto e confusione nel paese e nessuno sapeva chi avrebbe preso il potere. È in quel contesto che un gruppo chiamato Caifi (Comitato per la libertà artistica e intellettuale in Iran) decise di organizzare un evento per la giornata internazionale della donna, l’8 marzo 1979.

Il Caifi era un’organizzazione di sinistra formata da uomini e donne progressiste. Tra loro c’erano persone che erano state prese di mira e torturate dalla Savak, la famigerata polizia dello scià. In quel momento, all’improvviso, erano libere dalla repressione, ma non era chiaro se avrebbero fatto parte del nuovo ordine. Molti, nell’organizzazione, erano perplessi all’idea di organizzare un evento per la giornata internazionale della donna. All’epoca dello scià, infatti, quel giorno non rappresentava la libertà. Molte persone erano state “costrette” a celebrare la giornata e in alcune zone del paese le donne avevano dovuto mostrare il cammino dell’Iran verso il progresso togliendosi il velo. Il Caifi non approvava quel tipo di atto forzato: era il motivo principale della perplessità sulla celebrazione dell’8 marzo.

Alla fine si decise di organizzare un evento, di fare uno sforzo per ridefinire quella giornata e trasformarla in un vero momento di libertà in cui tutte le donne della sinistra e della destra iraniana, con e senza velo, potessero riunirsi. Per rendere l’occasione davvero “internazionale” furono invitate alcune femministe da tutto il mondo, soprattutto da Francia e Stati Uniti. Il Caifi ribadì che tutte le donne erano benvenute, cercando di coinvolgere anche donne con il velo.

Il diritto di scegliere
Le ospiti che arrivarono dall’occidente rimasero sorprese dal tentativo di unificazione tra le iraniane di destra e sinistra, che avevano condiviso la persecuzione ai tempi dello scià. Una di loro, la statunitense Kate Millett, scrisse nel suo libro Going to Iran che le donne con il velo integrale sembravano “minacciose”. La femminista francese Simone de Beauvoir non andò in Iran, ma parlando dell’invito ricevuto confessò di aver immaginato che lo scopo della visita fosse quello di salvare le donne iraniane dal velo. Come succede ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo, l’identità delle donne iraniane era ridotta al velo.

Le donne che facevano parte del Caifi erano laiche, ma sostenevano il diritto delle altre donne di indossare il velo. Questa posizione seguiva una versione del laicismo che non proibiva l’espressione religiosa nella sfera pubblica, ma chiedeva che lo stato si tenesse alla larga dalla vita delle donne, permettendo a chi lo desiderava d’indossare il velo e in generale alle donne di vestirsi come preferivano. Lo stato, sosteneva giustamente il Caifi, non aveva il diritto di prescrivere o proibire il velo. Tutte le donne dovevano poter scegliere.

Probabilmente le donne laiche capivano che non ci sarebbe stato alcun movimento unificato delle donne senza la possibilità di coinvolgere tutte le iraniane, che avevano posizioni politiche e religiose diverse. Lo scià aveva imposto il secolarismo con la forza, cercando di proibire il velo e perseguendo i leader religiosi. Secondo il Caifi le donne vessate durante la dittatura dovevano tornare ad avere un ruolo attivo, perché il divieto del velo imposto dall’alto non corrispondeva alla libertà.

Se per una volta le donne fossero lasciate in pace, riuscirebbero senz’altro a trovare il cammino da seguire

Il dilemma iraniano ricorda quello che le donne pachistane vivono oggi. Nel tentativo di distogliere l’attenzione dai problemi sistemici ed economici del paese, diversi funzionari del governo hanno additato l’Aurat march (la marcia per l’8 marzo) come una manifestazione del tracollo morale. Gli organizzatori hanno sottolineato in più di un’occasione che la marcia è aperta a tutte le donne e a tutti i gruppi che hanno subìto una persecuzione, e hanno preparato documenti e manifesti disponibili a chiunque voglia leggerli. Eppure molti opinionisti in tv continuano a diffondere una propaganda negativa sull’evento. Gli esponenti del governo che non vogliono permettere alle donne di decidere autonomamente hanno espresso la loro opinione sulla giornata dell’8 marzo e hanno chiesto l’osservanza di un “giorno dell’hijab” per contrastare la ricorrenza.

Uomini spaventati
Il matrimonio tra la sfera religiosa e quella laica non è mai semplice, ma le donne pachistane dovrebbero provarci. Purtroppo l’esito del tentativo delle donne iraniane non è incoraggiante. L’8 marzo 1979 presero la parola donne di ogni genere, comprese le ospiti occidentali e le iraniane con il velo integrale. L’ayatollah Khomeini era tornato nel paese il mese prima. Alla vigilia della giornata internazionale della donna il nuovo regime annunciò che il velo sarebbe stato obbligatorio nei luoghi di lavoro. Migliaia di donne parteciparono alla protesta dell’8 marzo e le manifestazioni proseguirono per giorni.

Sono sicura che se le donne iraniane avessero potuto decidere il loro futuro, lo avrebbero fatto egregiamente trovando un compromesso per consentire a tutte di conservare la propria libertà rispetto ai propri corpi e alle proprie vite. Ma gli uomini lo hanno impedito.

Succede lo stesso oggi in Pakistan. Le voci più forti contro l’Aurat march sono maschili, accompagnate da un manipolo di donne che criticano le loro compatriote sperando di ottenere vantaggi dai patriarchi. Se per una volta le donne fossero lasciate in pace, se gli fosse permesso di cercare la loro strada, riuscirebbero senz’altro a trovare il cammino da seguire. Ma gli uomini del Pakistan, come quelli dell’Iran, sono troppo spaventati. Quindi criticano, condannano e cercano di mettere a tacere le voci di tutte le donne stanche del loro dominio.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano pachistano Dawn.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it