Coloro che hanno affondato l’ultimo pugnale nel corpo già martoriato del Libano erano le stesse persone che avrebbero dovuto risollevarlo e rilanciare il ruolo di questo popolo nel mondo arabo.
Il presidente Michel Aoun non ha accettato il governo proposto dal primo ministro designato Saad Hariri. Quest’ultimo si è dimesso pochi minuti dopo, epilogo di un dramma che dura da nove mesi. Immediatamente sono crollate sia il valore della fragile valuta nazionale sia le speranze della popolazione di porre fine alle miserie quotidiane che affliggono ogni aspetto della sua vita.
Una volta ancora il popolo libanese trattiene oggi collettivamente il fiato, in attesa di un’altra lunga crisi politica che coinvolgerà i leader dei principali partiti, il cui dominio assoluto ha devastato il paese negli ultimi anni. Ma questi leader sembrano determinati a continuare il loro gioco egoistico che consiste nel mantenere il potere a tutti i costi.
Questo ciclo di contrasti tra politici settari ed egoisti si è intensificato da quando è cominciata la crisi attuale, due anni fa. Ma stalli politici come lo scontro “muro contro muro” tra Hariri e Aoun, che hanno sospeso l’attività di governo, si sono verificati con regolarità negli ultimi decenni.
Il lento collasso dell’attività di governo, dell’economia e della vita quotidiana come la conosciamo in tutto il Libano – specialmente nelle grandi città dove vive la maggior parte delle persone – è la prova che oggi non assistiamo solo a una crisi politica tra due persone ideologicamente contrapposte.
Di fronte abbiamo, piuttosto, una più profonda crisi della statualità che non è solo tragica per il Libano, ma colpisce anche altri paesi arabi in maniera analoga. È tempo di riconoscere i difetti strutturali del sistema statale libanese e di altri paesi della regione, che ci hanno fatto toccare un punto così basso.
Come distruggere uno stato
Il costo della crisi è diventato chiaro per ogni famiglia libanese, a esclusione della clientela, dei partner commerciali, del personale di sicurezza e dei dipendenti dell’élite oligarchica al potere. Oltre al leader sunnita Hariri e al leader cristiano maronita Aoun, di questa élite fanno parte il presidente della camera Nabih Berri, il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il leader druso Walid Jumblatt, e alcuni uomini meno potenti che tuttavia partecipano al funesto gioco politico libanese con la stessa determinazione e gli stessi catastrofici risultati.
Sono tutti maschi, molti di loro stanno invecchiando, la maggior parte di loro ha ereditato la sua posizione dalla famiglia o dai propri sodali, e ognuno ha fornito al mondo arabo l’esempio più spettacolare di come distruggere uno stato, un tempo dignitoso, e far sprofondare i suoi cinque milioni di abitanti nella disperazione e nella povertà.
Le notizie che arrivano ogni giorno dal Libano descrivono una sofferenza costante delle famiglie. L’energia elettrica è praticamente scomparsa, il che significa che l’aria condizionata, internet, i frigoriferi e gli ascensori funzionano solo sporadicamente. La benzina è difficile da trovare e più costosa ogni settimana che passa. Il prezzo del cibo aumenta costantemente mentre il valore della lira diminuisce di pari passo. Le medicine essenziali per i neonati o gli anziani sono quasi introvabili. L’acqua potabile è fornita in modo irregolare. E le banche che custodiscono i risparmi di una vita sono diventate un territorio inaccessibile.
Anche quando è possibile prelevare contanti, il tasso di cambio fissato dalla Banca centrale fa sì che chi ha versato del denaro ottiene in realtà circa il venti per cento del valore del suo deposito originario. Il sistema scolastico è per lo più in caduta libera, e nuovi posti di lavoro decenti non esistono.
Sempre più aziende essenziali accettano solo dollari in contanti, che sono fuori dalla portata della maggior parte dei libanesi comuni. Sempre più persone sopravvivono ricorrendo a mense collettive, elemosina, prestiti, coltivando il proprio cibo nei loro antichi villaggi di montagna, o impegnandosi in attività economiche fondate sul baratto.
Quelli che possono emigrare lo fanno il più velocemente possibile, ma la maggior parte non può. Il risultato sono milioni di libanesi e profughi arrabbiati, frustrati, impauriti e impotenti, che si sentono così vulnerabili e umiliati che faticano ad articolare il loro dolore a parole. Molti sono stati ridotti in uno stato di disumanizzazione, e si sentono trattati come animali dai loro stessi dirigenti politici e nazionali.
L’attuale collasso non riflette solo l’incompetenza dell’élite al potere; rivela anche l’insostenibilità della stessa struttura settaria dello stato libanese
Questa situazione estrema è molto drammatica perché non è la conseguenza della guerra, bensì il risultato della cattiva gestione, della corruzione e del disprezzo dell’élite al potere nei confronti del benessere e dei diritti dei cittadini.
La crisi attuale, come ha riconfermato lo spettacolo Hariri-Aoun della scorsa settimana, è il segno della convergenza di diverse crisi (politica, economica, fiscale, bancaria, energetica, ambientale), tutte dovute ai cattivi o inesistenti processi decisionali dell’élite al potere che controlla il Libano dalla fine della guerra civile nel 1990.
La verità, tuttavia, è che questa élite ha controllato lo stato per molto più tempo, a dire il vero per la maggior parte di tutto il secolo scorso. L’attuale collasso non riflette solo l’incompetenza egoistica dell’élite al potere; rivela anche l’insostenibilità della stessa struttura settaria dello stato libanese.
È importante tenere a mente la cronologia di un intero secolo, dal 1920 a oggi, perché rivela diversi fili che stanno contribuendo alla debolezza e alla lenta implosione dello stato e dell’economia libanesi.
Molti dei fattori che contribuiscono a questa situazione possono essere ricondotti a quattro dinamiche, tutte dipanatesi nel corso del secolo scorso: 1) le conseguenze, a scoppio ritardato, delle decisioni coloniali prese dagli europei intorno al 1920, da cui sono nati molti stati arabi; 2) le conseguenze del conflitto arabo-israeliano (anch’esso vecchio di un secolo); 3) la mancanza di un’autentica partecipazione dei cittadini nel processo decisionale o di attribuzione delle responsabilità politiche negli stati arabi; 4) la continua interferenza, nei paesi arabi, delle potenze vicine o straniere, che rendono la sovranità degli stati una finzione comunemente accettata.
Negli ultimi cento anni queste quattro dinamiche ci hanno portato a un punto in cui Libano, Siria, Iraq, Palestina, Yemen e Libia, per citare solo i casi più evidenti, hanno sperimentato una grave sofferenza nazionale, riducendo lo stato in ginocchio e i cittadini alla disperazione o all’emigrazione.
In tutto il mondo arabo sta emergendo una situazione comune che oggi colpisce anche il Libano: la maggioranza dei cittadini è povera, vulnerabile e politicamente impotente, mentre i governi e le istituzioni statali tengono sempre più sotto controllo la rabbia e la ribellione dei cittadini attraverso, più di ogni altra cosa, misure militari e di sicurezza.
Il Libano è nato nel tumulto regionale della creazione degli stati arabi indipendenti dopo il 1920. E oggi sta implodendo nel contesto delle continue pressioni di un’attività statale disfunzionale, sua e di altri territori arabi vicini, dovuta allo stesso quartetto di cause risalenti a un secolo intero fa.
Il Libano ci ricorda che l’affermazione di stati arabi stabili, democratici, produttivi e realmente sovrani è ancora un obiettivo sfuggente.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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