Domenica a mezzogiorno Plaza de la Revolución si è riempita di persone di ogni tipo: punk, adolescenti, appassionati di rock e di salsa, studenti latinoamericani e anche qualche poliziotto in borghese. Il sole era così forte che rischiava di rovinare il concerto organizzato dal cantante colombiano Juanes, ma nel pomeriggio le nuvole hanno offerto un po’ di sollievo ai partecipanti.
Per cinque ore ci siamo dimenticati delle polemiche per la presenza di tanti artisti stranieri in un luogo con un significato politico così forte. I cubani hanno ballato nella piazza dove solitamente si lanciano gli appelli all’intransigenza ideologica, e dove durante le fucilazioni del 1959 si gridava “paredón!” (tutti al muro).
Durante lo spettacolo è stato ricordato anche chi non poteva esserci. Si è parlato dell’esilio cubano e una canzone era dedicata a una figlia separata dal padre da più di vent’anni (ad appena 140 chilometri di distanza). Juanes ha parlato per ultimo e, nel luogo in cui da sempre chi emigra è accusato di essere un traditore, ha gridato: “Per una sola famiglia cubana!”. Alcuni speravano che usasse il microfono per chiedere la libertà. Ma, nella Cuba di oggi, anche solo parlare di riconciliazione è un gesto coraggioso.
Alla fine del concerto tutto è tornato come prima, ma qualcosa è cambiato per quelli come me che hanno assistito all’appello per una pace senza frontiere. Lunedì ci siamo svegliati con la solita doppia valuta, la censura, il controllo statale sulle nostre vite e le difficoltà economiche di sempre, ma la nostra autostima era molto più alta. Avevamo ascoltato le voci che a Madrid, Berlino o New York risuonano negli iPod e nelle discoteche. Ci sentivamo cittadini del mondo e i cambiamenti non ci sembravano più così lontani.
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