“Arrivano i russi!”, gridava qualcuno spaventato, mentre altri ribattevano: “Benvenuti i sovietici!”. Preferire un’esclamazione all’altra era una questione ideologica. Da bambini i cubani della mia generazione non avevano dubbi su quale frase scegliere: vedevano film e cartoni animati russi e salivano felici sulle Lada sovietiche. A ovest della città svettava un edificio, sede dell’ambasciata dell’Unione Sovietica, ribattezzato la “torre di controllo” per la sua architettura e per i suoi significati politici.
La diciannovesima edizione della fiera internazionale del libro, che si è appena svolta all’Avana, era dedicata alla patria di Lenin. Al cinema hanno proiettato vecchi classici come Guerra e pace e, tra lo stupore di molti, la tv ha trasmesso in prima visione la serie Il maestro e Margherita, basata sul romanzo satirico di Michail Bulgakov.
È stata incredibile anche l’acida critica che i giornali del settore hanno riservato alla presentazione del balletto del Bolshoi, un tempo fiore all’occhiello della cultura sovietica, che ha deluso il pubblico esigente dell’Avana.
Questa volta i russi non sono arrivati in grandi gruppi, vestiti con pantaloni abbondanti e camicie bianche rimboccate fino al gomito. Non li abbiamo neanche chiamati los bolos, gli amorfi, un appellativo tra lo scherzoso e l’affettuoso che gli avevamo affibbiato per i loro prodotti industriali poco sofisticati.
Oggi si fanno vedere in discoteca, sembrano imprenditori e usano profumi francesi. Ci hanno portato libri che affrontano diverse tematiche, con pochi titoli di marxismo e leninismo. Nessuno ha gridato spaventato: “Tornano i sovietici!”.
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