Prima di tutto bisogna uscire dalla Siria. Per farlo occorre del denaro, e non tutti ne hanno. E poi nessun paese vuole i siriani, a parte forse l’Iran, la Turchia e il Sudan, dove ancora possono entrare senza visto. Alcuni prendono l’aereo a Beirut, in Libano, direzione Istanbul. Altri attraversano la frontiera tra Aleppo e la Turchia e si dirigono verso Smirne.
Io sono partito per Istanbul il primo febbraio 2015. Ho lavorato sei mesi come lavapiatti in un ristorante siriano, nel quartiere di Fatih. Ho richiesto più volte un visto per la Francia, ma mi è stato negato. Preso dalla disperazione, sono andato a Smirne.
Alla stazione di Atene, mi si è avvicinato un uomo. Mi ha mostrato un autobus pieno di siriani in partenza per la frontiera macedone. Prezzo del biglietto: 55 euro. Sono salito. Il viaggio è durato cinque ore. Poi abbiamo camminato per cinque o sei chilometri, fino al villaggio di Gevgelija. Migliaia di siriani aspettavano sotto la pioggia. La stampa era sul posto. Era poco tempo dopo gli incidenti del 21 agosto. La calma era tornata e sono potuto passare senza problemi con un gruppo di trecento persone. L’esercito macedone ci ha guidato verso dei pullman che ci hanno portato alla frontiera serba. Abbiamo camminato un’altra decina di chilometri. In Serbia l’esercito e la polizia ci hanno condotto verso un grande villaggio musulmano, pieno di moschee (Preševo). Ci hanno dato cibo e acqua. Siamo passati da un campo dove abbiamo ricevuto i nostri documenti. Quindi abbiamo preso il pullman per Belgrado. Prezzo del biglietto: 25 euro.
Da Kanjiža, nel nord della Serbia, degli altri pullman ci hanno portato a Horgoš, un villaggio a due chilometri dalla frontiera con l’Ungheria. Siriani, bangladesi, afgani, pachistani, africani: erano tutti in attesa e si chiedevano come attraversare la frontiera. La stampa era lì che intervistava e fotografava. Ci siamo messi in marcia lungo la ferrovia che porta alla frontiera. Un tragitto considerato pericoloso: i poliziotti ungheresi lo pattugliano con dei cani e molte persone sono state arrestate. Ma quella notte, al check point, un poliziotto ci ha rassicurato: ci porteranno in un campo dove troveremo dei dottori e tutto il necessario per i bambini. “Non preoccupatevi!”. I poliziotti hanno preso le nostre generalità. Abbiamo aspettato cinque ore, dormito sull’erba, prima che dei pullman ci trasportassero al campo di Röszke.
Tornate indietro
All’arrivo a Röszke ci viene attribuito un numero. Il numero si trova su un braccialetto. Ci viene detto di conservarlo tutto il tempo che resteremo nel campo. Non sarebbe giusto dire che mancavano acqua e cibo. Ce n’erano, ma non in quantità sufficiente. Ogni persona ha diritto a un solo pasto al giorno: un pezzo di pane e mezzo litro d’acqua.
Dopo aver distribuito le razioni, i poliziotti spuntano il numero che corrisponde ai diversi migranti su un foglio.
Eravamo almeno tremila. Ogni mezz’ora, arrivava un pullman con nuovi profughi a bordo. Afgani, bangladesi, iracheni, pachistani. I siriani sono rimasti tre giorni nel campo. C’erano moltissimi bambini. Ma nessun dottore. Molto presto è mancata l’acqua potabile. Alcuni poliziotti ci hanno detto di bere quella dove c’eravamo appena lavati. Le persone si sono rifiutate.
Non volevamo che i bambini bevessero quell’acqua sporca e puzzolente. È scoppiata una specie di rivoluzione: 75 persone hanno formato una piccola folla e hanno cominciato a urlare. Un po’ fuori, al di là della struttura, era ferma un’auto con un fotografo a bordo. Le autorità hanno dato l’ordine di accerchiare il campo con i pullman, affinché nessuno potesse filmare dall’esterno quel che succedeva all’interno. È apparso un poliziotto con un cane e sono arrivati i rinforzi.
Alcuni siriani hanno cercato di scalare la recinzione, ma il campo era sorvegliato. Durante quei tre giorni ho pensato che non sarei più uscito. Sognavo di chiamare mio padre, la mia famiglia, e di raccontare quello che mi stava succedendo. Ma non c’era internet, niente. Alla fine ci hanno dato i nostri documenti. Potevamo andare gratuitamente in treno fino a Budapest.
Avremmo potuto lasciare il campo? Oppure eravamo rinchiusi lì per sempre? Queste erano le domande che ci ossessionavano. La sola frase che abbiamo memorizzato è: “Go back! Go back! Go back!” (Tornate indietro). Alla fine ci faceva ridere. Gli afgani e i pachistani, che non parlavano una parola d’inglese, e ancor meno d’ungherese, dicevano “Go back!” ogni volta che arrivava il cibo o che dovevano andare in bagno. È diventata una battuta.
Una strana sensazione
Abbiamo preso il treno a Szeged, nel sudest dell’Ungheria. All’ingresso della stazione, c’era un piccolo mercato. Alcune ragazze ci hanno offerto del cibo e dell’acqua. C’era il wifi. Molte persone hanno preso un taxi. Noi ci siamo accalcati in quindici in uno scompartimento. Un poliziotto ha chiuso la porta e non si è mosso dalla sua posizione per le due ore e venti minuti del tragitto.
A un certo punto, abbiamo creduto che ci stessero portando in un altro campo. Approfittando di una pausa, un quarto d’ora prima dell’arrivo a Budapest, io e un mio amico siamo saltati giù dal treno. Ci siamo nascosti e, dopo aver camminato per qualche minuto, abbiamo trovato un taxi che ci ha lasciati in un piccolo hotel a buon mercato della capitale ungherese. Ma ci aspettava una sorpresa alla stazione ferroviaria internazionale di Keleti.
C’erano molti giornalisti, ma anche dei poliziotti che impedivano ai profughi di prendere il treno
Conoscevo la stazione Basmane a Smirne, che si trova in mezzo a un grande parco. Alcune persone, tra cui alcuni profughi siriani, dormono lì, sull’erba, per strada o in dei giardini, in attesa di attraversare l’Egeo.
A Keleti ho vissuto una strana situazione. Per prima cosa sono rimasto sorpreso dal numero di siriani. Una televisione trasmetteva un programma di Al Jazeera in arabo che mostrava una donna incinta con un bambino piccolo. Nella stazione di Keleti c’erano molti giornalisti, ma anche dei poliziotti che impedivano ai profughi di prendere il treno.
Ahmad, un siriano di circa quarant’anni, che è in viaggio con sua moglie e il loro bambino, mi dice: “Mi hanno buttato giù dal treno. Mi hanno chiesto se ero siriano, hanno voluto vedere il mio passaporto. Ho risposto che non ce l’avevo. Documenti? Impronte digitali? Dove andate? A Vienna? In Germania? E mi hanno cacciato dal treno. Go Away! Ma dove? Non a Vienna, non in Germania. In un campo?”.
“Ma cosa vuole, l’Ungheria? Che restiamo qui? Diventerà la nuova stazione Basmane. Smirne a Budapest. Se vai a comprare un biglietto per Vienna, t’impediranno di salire sul treno oppure, se ci riesci, ti obbligheranno a scendere. I poliziotti controllano i biglietti e i documenti d’identità di tutti quelli che non sono biondi”.
Le persone che sono morte durante il viaggio sono le nuove vittime della guerra in Siria. I rifugiati hanno percorso duemila o tremila chilometri. Portano addosso l’insieme delle loro sofferenze e vogliono proseguire il loro viaggio verso la Germania, l’Austria o un qualsiasi paese dell’Unione Europea dove possano vivere in pace. Ma i poliziotti controllano i treni, gli autobus, i taxi, qualsiasi cosa.
Qualche giorno fa 71 persone sono state trovate morte a bordo di un camion sull’autostrada che porta a Vienna. La verità è che è molto difficile uscire da Budapest, anche per chi possiede dei documenti. Dovunque andiamo, siamo trattati come sospettati. Le domande che i rifugiati si pongono sono: dove andare e come? Prima, l’ostacolo principale era il mare. Adesso è l’Ungheria: come entrarci e come uscirne?
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo reportage è stato pubblicato su Le Courrier des Balkans all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel, BabelMed, Osservatorio Balcani e Caucaso, Migreurop, Resf, Centro Primo Levi, La cimade, Medicins du monde.
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