Un eretico, una marionetta dei fondamentalisti che mirano a instaurare il califfato nel sudest asiatico, il capo di una setta di ecologisti pronti all’Armageddon, un politico avveduto e calcolatore, un incrocio tra Kurtz e Tyler Durden calato nelle foreste del Borneo, dove il rispetto che gli tributano più di cinquemila persone ha scatenato dapprima un’ondata di disordini e poi l’intervento diretto della marina militare indonesiana.
Negli ultimi mesi, sul leader del gruppo religioso Gafatar, Mahful Tumanurung, si è detto tutto questo e anche molto di più, ma a vederlo adesso, circondato da cinque dei suoi nel ristorante di un centro commerciale di Jakarta, Mahful sembra solo l’ex ricercatore della facoltà di teologia islamica descritto nella scarna biografia che circola su di lui.
Quest’uomo di 35 anni dagli abiti modesti, con una capigliatura ordinatissima, è riuscito in qualche mese a intrappolare il sistema politico indonesiano in una rete di contraddizioni: “Ci accusano di rapimento, di blasfemia e di voler imporre la sharia, ma la verità è che non vogliamo violare nessuna legge e chi ci segue lo fa di sua spontanea volontà. Chiediamo solo la libertà di culto, e quindi stiamo invocando il rispetto della nostra costituzione”, dice Mahful. Le pause controllate, l’eloquio e la maniera di porre i concetti suggeriscono che oltre alla teologia il leader del Gafatar abbia studiato bene la retorica.
Di sicuro, sa come presentarsi alle telecamere.
Alla fine di gennaio i social network indonesiani si sono riempiti di foto e video provenienti da West Kalimantan, nel sud del Borneo: le immagini mostravano edifici ridotti in cenere sullo sfondo della rigogliosa foresta di Monton Panjang, centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini ammassati in un campo profughi temporaneo, e infine l’intervento dei militari, che caricano sulle navi dirette a Java moltitudini di sfollati.
La paura dell’arabizzazione
Secondo i mezzi d’informazione indonesiani i primi disordini erano scoppiati qualche giorno prima, quando bande organizzate di abitanti di Kalimantan avevano attaccato la comunità dei Gafatar radendo al suolo le loro abitazioni, i campi coltivati e gli spazi comuni destinati al culto. “I membri del Gafatar sono stati evacuati per evitare nuovi incidenti. Adesso, per condividere con loro una comprensione del vero islam, saranno sottoposti al programma di rieducazione”, ha dichiarato il portavoce del ministero della giustizia Agus Barnas.
L’Indonesia è una repubblica laica ma anche il paese con la popolazione musulmana più numerosa del mondo
Si potrebbe pensare a un nuovo caso di intolleranza religiosa, ma l’Indonesia non è l’Arabia Saudita e lo schema “minoranze perseguitate dal fondamentalismo islamico di stato” che per molti media occidentali scatta quasi automaticamente, qui perde di significato – se mai ne ha avuto uno.
L’Indonesia è una repubblica laica, nella quale sono in vigore il multipartitismo e la separazione tra i poteri dello stato. Alla base dell’ordinamento e della costituzione c’è la dottrina Pancasila (i cinque princìpi), un singolare miscuglio di nazionalismo, valori democratici, socialismo e riconoscimento di cinque religioni ufficiali (islam, induismo, buddismo, cattolicesimo e protestantesimo) che è maturato fino a una visione di tolleranza religiosa accettata dalla maggior parte della popolazione.
Allo stesso tempo l’Indonesia è il paese con la popolazione musulmana più numerosa del mondo: circa l’87 per cento dei 250 milioni di abitanti professa un islam moderato e venato di influenze sufi e animiste.
Nonostante la corruzione diffusa a tutti i livelli, il sistema è riuscito a reggere alle tensioni evitando sia derive fondamentaliste sia scontri etnici come quelli del 1998, quando furono presi di mira gli indonesiani di origine cinese, nei giorni precedenti la caduta del regime di Suharto. La politica si alimenta di una dialettica continua tra governo e il Majelis ulama Indonesia (Mui), il supremo consiglio degli ulema che formalmente non ha alcun ruolo secolare, ma nei fatti indirizza numerose scelte.
Spesso il Mui isola e scomunica gli islamisti radicali, ma a volte pronuncia fatwe estremamente conservatrici che il governo assorbe o rigetta, soprattutto per ragioni di realpolitik. Quella indonesiana è una società pluralista, ricca di sfumature, che teme più di tutto il “rischio arabizzazione”. Eppure la vicenda del Gafatar è riuscita a mandarla in cortocircuito.
“Abbiamo superato l’islam”, dice Mahful Tumanurung. “Il Millat Abraham, il nostro credo, si basa su uno studio comparato del Corano, della Bibbia e della Torah e sulla fede in unico Dio onnipotente. C’è un equivoco che risale a diversi anni fa e forse potrebbe essere la causa delle aggressioni”. Alcuni dei primi seguaci del Gafatar, racconta Mahful, facevano parte di Al qiyadah al islamiyah, un gruppo radicale islamico che il consiglio supremo degli ulema ha bollato come eretico nel 2007. Il fondatore, Ahmad Moshaddeq, fu incarcerato nel 2008, e secondo gli ulema indonesiani il Gafatar non sarebbe altro che una metamorfosi della vecchia organizzazione, un cavallo di Troia che dietro la professione di sincretismo nasconde il disegno terroristico di un califfato regolato secondo la sharia.
Rieducazione forzata
“Siamo circa 50mila, sparsi in tutta l’Indonesia, ma si contano anche 54mila simpatizzanti”, prosegue Mahful. “Le famiglie di molti di noi hanno rifiutato il nostro credo, e così abbiamo deciso di creare la nostra comunità nel Kalimantan. Condividevamo i frutti dei nostri raccolti con i locali, volevamo contribuire al benessere generale, non ci aspettavamo una reazione del genere”.
Vishnu, un altro adepto del Gafatar, sulla trentina, racconta come sono scoppiati i disordini: “È stato un attacco coordinato e sistematico, ci hanno intimato di lasciare le case che avevamo costruito e poi le hanno distrutte. Siamo nonviolenti e non abbiamo reagito, ma ora quelli di noi che non sono stati evacuati da Kalimantan e sottoposti alla rieducazione si ritrovano senza un tetto e senza averi”.
Il programma di rieducazione imposto dal governo indonesiano ai soggetti sospettati di jihadismo si basa su una serie di colloqui con ulema del Mui, come racconta l’avvocato Rafendi Djamin, presidente di Human rights working group, ma l’imposizione del programma ai Gafatar sta suscitando accuse di discriminazione religiosa sempre più accese.
Pochi giorni trascorsi insieme ai Gafatar non bastano per farsi un’idea coerente su di loro
“Noi sappiamo che il mondo sta per affrontare un’immane emergenza alimentare”, conclude Mahful, e il suo tono di voce si fa ieratico, lo sguardo sognante. “Il programma di coltivazione in Kalimantan era il primo gradino per prepararsi alla crisi e offrire un’alternativa a tutti. Sappiamo anche che la nuova alba del genere umano nascerà a est, qui nell’arcipelago, lo si capisce dal Corano e dall’Antico testamento. Vogliamo restare, ma se l’Indonesia non ci permetterà di professare la nostra fede allora dovremo trovare un altro paese che ci accolga, anche se per noi si tratta davvero dell’ultima opzione. Maometto, Gesù, Mosé, Abramo: tutti i profeti sono stati scacciati dalle loro case, e noi condividiamo con loro lo stesso credo”.
Pochi giorni trascorsi insieme ai Gafatar non bastano per farsi un’idea coerente su di loro: sono una setta? Fanatici a cavallo tra ecologia e profezie apocalittiche? Fondamentalisti o inoffensivi sognatori perseguitati?
E può uno stato laico che lotta contro il fondamentalismo islamico forzare alla rieducazione gli elementi considerati “devianti”?
Le ambivalenze della società indonesiana rendono il contesto più indistinto, come le colonne di vapore che salgono dall’asfalto di Jakarta dopo un acquazzone.
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