Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libeŕation (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).
In Italia negli ultimi due anni le organizzazioni non governative (ong) che hanno partecipato ai soccorsi di migranti nel Mediterraneo centrale hanno subìto attacchi di ogni tipo e sono state al centro di una campagna di discredito molto aggressiva. Le organizzazioni di soccorso sono state accusate di essere in collegamento con i trafficanti di esseri umani, di lavorare per il filantropo ungherese George Soros, e di volersi arricchire alle spalle dei migranti. In breve tempo i sospetti si sono estesi a tutte le organizzazioni umanitarie, anche a quelle che non si occupano né di migranti, né di soccorsi in mare. A ben vedere, però, in tutta Europa si assiste a un fenomeno simile.
Tra i paesi europei più ostili alle ong c’è l’Ungheria di Viktor Orbán che già nel 2015 ha approvato una legge che ricalca quelle volute da Vladimir Putin in Russia nel 2012 e nel 2015 contro le associazioni non profit, le organizzazioni che si occupano di diritti umani in generale e quelle internazionali.
Secondo l’ultimo rapporto di Transparency international, sulla percezione della corruzione in 180 paesi del mondo, in Ungheria è stato registrato un forte arretramento per quanto riguarda la libertà di espressione: la situazione nel paese è simile a quella precedente alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Un rapporto di Freedom house recentemente ha declassato l’Ungheria da paese libero a paese “parzialmente libero”. Si tratta dell’unico paese europeo in questa situazione. “Il partito al governo ha usato la sua maggioranza assoluta in parlamento per imporre restrizioni ai mezzi d’informazione, ai gruppi religiosi, alle ong, alle università, ai partiti di opposizione, al settore privato a partire dal 2010”, è scritto nello studio.
La distruzione dello stato di diritto
In Ungheria uno dei pilastri della guerra alle libertà democratiche è stato l’attacco sferrato da Orbán ai migranti (a partire dalla crisi dei rifugiati del 2015) e alle organizzazioni non governative che li hanno aiutati e che, parallelamente, hanno denunciato la propaganda governativa contro gli stranieri e, in generale, le restrizioni alle libertà e allo stato di diritto.
Dall’alto del castello di Buda che domina il Danubio e la capitale ungherese, dove Orbán ha trasferito il suo ufficio, il giornalista Gergely Márton della rivista Hvg cerca di spiegare la formula del successo del primo ministro, considerato da molti una minaccia per l’Unione europea in vista delle elezioni europee di maggio quando, secondo i sondaggi, si assisterà a un netto avanzamento dei partiti nazionalisti.
Gergely Márton racconta che nel corso del secondo mandato (2010-2014) Orbán ha preso di mira lo stato di diritto: ha cambiato la costituzione con i soli voti del suo partito, ha riformato l’istruzione, l’informazione, il potere giudiziario (mettendo la magistratura sotto il controllo del governo). Inoltre ha riformato la Banca centrale ungherese, imponendo un maggiore controllo dell’esecutivo sulle politiche monetarie.
Nel frattempo è emerso un sistema di deviazione di fondi pubblici, che ha permesso ai dirigenti di Fidesz di ottenere fondi europei per finanziare la creazione di mezzi d’informazione filogovernativi. “Questa situazione è stata denunciata dalle organizzazioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani, come il comitato di Helsinki per i diritti umani oppure l’ungherese Tasz o Transparency international”, ricorda Márton. Da allora, Orbán non ha risparmiato gli attacchi contro queste organizzazioni, che godono di grande credito, perché i loro rapporti sulla libertà di stampa o sul livello di corruzione sono stati spesso usati dall’opposizione o dai parlamentari europei per denunciare la deriva autoritaria del governo ungherese.
“All’inizio del 2015 Orbán è stato uno dei primi leader europei a capire che la nuova ondata migratoria proveniente dai Balcani e dalla Siria poteva essere un’occasione per i conservatori di agitare il fantasma dell’invasione”, racconta Márton. “Durante una conferenza stampa sugli attacchi terroristici contro il giornale satirico francese Charlie Hebdo nel gennaio del 2015, Orbán disse che l’attentato era il risultato dell’immigrazione senza limiti e dello scontro di civiltà”, ricorda il giornalista.
I giornalisti in sala si scandalizzarono per queste parole, ma Orbán stava chiaramente indicando una linea politica che nei mesi successivi sarebbe diventata molto importante per il governo. “Nel luglio del 2015 annunciò di voler costruire una recinzione tra la Serbia e l’Ungheria per proteggere il paese dall’arrivo dei migranti. In qualche modo capì per primo che poteva costruire una campagna di comunicazione politica sull’immigrazione. Nell’ottobre del 2014 Orbán era in un momento di difficoltà, stava perdendo consensi, ma grazie alla campagna contro i migranti ha riconquistato il favore del suo elettorato”, continua il giornalista.
Fino a quel momento l’Ungheria era stato solo un paese di transito per i migranti, come accadeva quasi ovunque nei Balcani, ma con la chiusura delle frontiere ungheresi sono aumentate le domande d’asilo perché tanti sono rimasti bloccati in un limbo burocratico. “Orbán ha capito che gli ungheresi temevano due cose: la corruzione e gli stranieri, così ha usato la propaganda contro gli stranieri per spostare l’attenzione dagli scandali di corruzione che lo stavano coinvolgendo, lasciando intendere che stava difendendo gli ungheresi da un’invasione”. Dal luglio del 2015 l’immigrazione è diventata una questione centrale nella propaganda del governo, Orbán ha dichiarato lo stato di emergenza, ha permesso all’esercito di intervenire per gestire l’immigrazione e poi ha approvato la prima legge sulle ong.
Secondo la legge, tutte le ong che ricevono finanziamenti dall’estero devono usare la dicitura “finanziata dall’estero”. “Di fatto è un modo per screditarle e controllarle. Addirittura la Croce rossa ha dovuto usare questa etichetta, ma la maggior parte delle ong come Amnesty international hanno rifiutato di farlo”, afferma il giornalista. Una legge simile era stata approvata in Russia nel 2012. Si deve considerare che in Ungheria esistono 60mila ong, molto diverse tra loro per ambito di interessi e per statuto.
Secondo il giornalista, alla fine le ong semplicemente non hanno applicato la legge e non ci sono stati “effetti importanti”. Si è trattato più che altro di una guerra di propaganda, che ha avuto conseguenze culturali: nel paese la percezione è che le ong siano portatrici di interessi stranieri, che siano manipolate dall’estero.
Ne è nato un clima di ostilità in cui alcuni gruppi di estrema destra hanno cominciato ad attaccare adesivi sulle porte o sugli edifici dove le ong hanno stabilito la loro sede, per etichettarle come “agenti stranieri”. A Budapest questa pratica ha riportato alla memoria la tragica storia della città: nel 1944 durante l’occupazione nazista le case degli ebrei erano segnate con una stella di Davide. “Orbán gioca spesso con l’antisemitismo, innesca una miccia che poi altri fanno esplodere, svolgendo il lavoro sporco per lui”.
La legge contro Soros
Del secondo pacchetto di leggi contro i migranti e le ong, chiamate in maniera provocatoria Stop Soros, si è cominciato a parlare prima delle elezioni dell’aprile 2018, vinte da Fidesz con il 49,2 per cento dei voti.
Le leggi sono state presentate durante la campagna elettorale e approvate solo dopo le elezioni nel giugno 2018 e prevedono una condanna fino a un anno di carcere per “chi fornisce aiuti finanziari o di altro tipo per un ingresso e per la permanenza illegale nel paese”. Queste norme stabiliscono che una persona non possa chiedere asilo in Ungheria se prima è passata attraverso un paese terzo ritenuto sicuro come la Serbia (paese da cui transita la maggior parte dei migranti che entrano nel paese); e infine conferiscono al ministero dell’interno il potere di vietare l’ingresso alle organizzazioni non governative che possono rappresentare “un rischio per la sicurezza nazionale”. Inoltre è previsto che le ong che si occupano di immigrazione versino il 25 per cento delle donazioni che ricevono nelle casse dello stato.
Queste leggi hanno sollevato molte critiche anche da parte di organismi internazionali: molti richiedenti asilo hanno presentato ricorso alla corte europea dei diritti umani, in quanto originari di un paese in guerra come la Siria o perché nel loro paese sono perseguitati. Ma per l’Ungheria conta solo se arrivano dalla Serbia, e in questo caso non prende nemmeno in considerazione la loro domanda di asilo. “Di fatto nessuna ong per il momento sta versando questi soldi, perché nessuno ha capito come questa legge funzioni nei fatti, ma il punto è che con questo tipo di misure le ong hanno spostato le loro sedi dall’Ungheria in altri paesi europei per il timore di essere ulteriormente colpite”, spiega il giornalista.
Il risultato di queste politiche propagandistiche sull’immigrazione in Ungheria è la polarizzazione della società: da una parte i sostenitori di Orbán credono che sia in atto una vera e propria invasione del paese che in realtà ospita un numero molto basso di immigrati, dall’altra parte c’è una minoranza di persone che accusano il governo di usare l’immigrazione come un diversivo per nascondere gli scandali di corruzione, la deriva autoritaria e la mancanza di democrazia.
I mezzi d’informazione finanziati dal governo, come Magyar Idök, Origo e Ripost, diffondono spesso notizie false sulle ong, mentre il governo accusa i suoi oppositori di diffondere menzogne sul suo operato. Per il Comitato di Helsinki, una delle principali organizzazioni in difesa dei diritti umani, “l’obiettivo principale di questa legge è intimidire coloro che legittimamente assistono i richiedenti asilo e gli stranieri, proteggendo i valori fondamentali e il diritto a ottenere un giusto processo. Le persone che difendono i più vulnerabili rischiano il carcere e questo porta a distruggere tutto quello che consideriamo lo stato di diritto”.
Le ong delle donne in Polonia
Un altro paese europeo governato dalla destra ha sperimentato una campagna piuttosto aggressiva contro le organizzazioni per i diritti umani negli ultimi anni: si tratta della Polonia, dove a essere state colpite dal partito Diritto e giustizia (Pis) sono soprattutto le organizzazioni che si occupano dei diritti delle donne e di salute riproduttiva.
Lo conferma un rapporto di 75 pagine pubblicato da Human rights watch il 6 febbraio The breath of the government on my back: attacks on women’s rights in Poland. A due anni dalle grandi proteste che hanno bloccato la riforma della legge sull’aborto, il governo polacco ha preso di mira i gruppi in difesa dei diritti delle donne, attraverso campagne di discredito, tagliando i finanziamenti e minacciando addirittura azioni legali. Sono stati resi inaccessibili i fondi pubblici alle organizzazioni che si occupano di violenza sulle donne, di supporto legale alle donne che hanno subìto violenza e a quelle che si occupano di gestire le case rifugio, i luoghi che accolgono le donne che scappano dai loro compagni che le hanno picchiate. Il centro per i diritti delle donne di Łódź, che fornisce sostegno alle donne sopravvissute alla violenza, ha subìto tagli importati, e questo ha costretto il centro a ridurre i servizi offerti e la presenza anche in altre città.
Agata Teutsch, direttrice della fondazione Autonomia, che conduce workshop nelle scuole contro la discriminazione di genere, ha raccontato a Human rights watch di essere stata attaccata personalmente dai politici del Pis, tanto che la sua credibilità e quella della sua organizzazione sono state direttamente minacciate. “In alcuni articoli ero descritta come pericolosa per l’educazione dei bambini”, ha raccontato l’attivista. Almeno cinque donne hanno raccontato all’organizzazione di aver subìto provvedimenti disciplinari sul posto di lavoro per aver collaborato con organizzazioni non governative che si occupano di diritti riproduttivi.
Colpite le organizzazioni religiose in Austria
In molti paesi europei durante la crisi dei rifugiati del 2015 c’è stata una importante mobilitazione della società civile che in alcuni casi ha supplito alle mancanze del sistema di accoglienza dei singoli stati davanti alla nuova ondata migratoria.
Molti volontari e molte organizzazioni umanitarie si sono occupate di distribuire pasti caldi, coperte, assistenza sanitaria e addirittura in alcuni casi un luogo dove dormire ai migranti che attraversavano le frontiere. Questo attivismo ha giocato un ruolo importante soprattutto vicino ai valichi di confine come Ventimiglia, in Italia, Calais, in Francia e Idomeni, in Grecia oppure nei paesi di transito balcanici.
In Europa l’azione umanitaria non è mai stata criminalizzata, cioè è sempre stato possibile fornire servizi di base anche a persone senza documenti, invece a partire dal 2015 le organizzazioni che si sono occupate di questa emergenza sono diventate un bersaglio, prima dei gruppi legati all’estrema destra e in alcuni casi anche dei governi, come nel caso dell’Austria guidata dal conservatore Sebastian Kurz. Recentemente il governo austriaco ha attaccato organizzazioni religiose come la Caritas che nel paese si occupano dell’accoglienza dei rifugiati, accusandola di aver costruito “un’industria dell’accoglienza”.
Il segretario del Partito della libertà (Fpö), Johann Gudenus, ha accusato la Caritas di gestire un “modello di business a spese dei contribuenti” e ha insinuato che l’organizzazione sia “avida di profitto”, per rispondere alle critiche avanzate dal presidente della Caritas Klaus Schwertner, che in un’intervista si era detto preoccupato per i tagli alla spesa sociale, annunciati dal governo prima di Natale.
Nel 2015, durante il picco degli arrivi di rifugiati, il governo austriaco aveva chiesto alla Caritas e alla Croce rossa di occuparsi di una serie di servizi per i profughi: assistenza legale, corsi di lingua. Ma ora, con una crescente ostilità verso gli immigrati in tutti il continente e la destra al governo in molti paesi, tutte le organizzazioni, anche quelle senza scopo di lucro o quelle religiose, sono diventate un bersaglio.
I rapporti tra l’Fpö e le ong che difendono i diritti umani sono stati molto critici già da quando il partito di estrema destra era all’opposizione. Già nel 1993, l’Fpö ha provato a proporre un referendum contro le ong. In quel momento numerose organizzazioni indipendenti organizzarono una delle manifestazioni contro il razzismo più partecipate di sempre: più di 200mila persone scesero in piazza a Vienna contro il referendum, che alla fine non si svolse.
Da quel momento il Partito della libertà ha sempre attaccato le organizzazioni indipendenti. Ma da quando l’Fpö è al governo la situazione è ovviamente peggiorata: “Da una parte il governo non vuole che i richiedenti asilo siano rappresentati da un avvocato indipendente. Nel dicembre del 2018 Christian Hafenecker, segretario generale dell’Fpö, ha detto: “Il fatto che le ong hanno beneficiato in maniera massiccia dell’ondata migratoria del 2015 è stato favorito dai socialdemocratici”.
Dall’altra parte, per la prima volta alcuni politici dell’Övp stanno criticando le ong come la Caritas, anche se non la attaccano nello stesso modo in cui fa l’Fpö. Nei primi giorni di gennaio, Gerhard Fleischmann, capo della comunicazione nella cancelleria federale e uno dei consiglieri del premier Sebastian Kurz ha scritto su Twitter: “La Caritas è una delle cinquanta più importanti aziende in Austria con 14mila dipendenti, un bilancio di un milione di fatturato e un marketing curato da professionisti”.
Prendersi cura delle persone bisognose è stata la missione principale della Caritas per oltre cento anni. Con circa 70 milioni di euro in donazioni, l’organizzazione non governativa (ong) religiosa è la più grande non profit del paese, secondo il rapporto sulle donazioni della Fundraising association. Dopo le accuse ricevute, la Caritas si è dovuta difendere dicendo che i fondi per i rifugiati rappresentano solo il 20 per cento del bilancio complessivo dell’organizzazione e che invece la maggior parte dei soldi è destinata all’assistenza degli anziani e dei disabili. Arrivare ad attaccare un partner così importante è di sicuro un salto di qualità nella guerra alle organizzazioni umanitarie da parte del governo austriaco e ora molti si chiedono quale sarà il prossimo passo. “Anche alcune organizzazioni che si occupano di diritti delle donne sono state colpite da pesanti tagli, alcune sono state costrette a chiudere”, conferma la giornalista austriaca Nina Horaczek.
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Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libeŕation (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).
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