Waladogaz Kili ha il volto scolpito dal sole, le rughe ne rendono l’espressione solenne. È il rappresentante dei quattromila rifugiati che vivono a Niamey ed è arrivato nella capitale del Niger quattro anni fa con la sua famiglia da Gao, in Mali. Aveva paura di essere ucciso dai jihadisti: “I terroristi cercano di arruolare gli uomini. Ti dicono che se non ti unisci a loro ti ammazzano e ammazzano anche i tuoi figli, stuprano tua moglie, molti tuareg si sono arruolati con i terroristi, ma io ho preferito perdere tutto e scappare invece di piegarmi ai loro ricatti”, racconta seduto nella corte interna di un centro d’accoglienza gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) a Niamey. “Ho fatto tutto il percorso a piedi, 80 chilometri, con i miei cinque figli, i più piccoli avevano due e tre anni, il più grande tredici”, continua.
Secondo il rapporto Global trends pubblicato dall’Unhcr il 19 giugno, nel 2018 sono state 70 milioni le persone costrette a lasciare il proprio paese per motivi legati alla violenza e alla guerra: un nuovo record assoluto, trentasettemila persone al giorno costrette a fuggire. Nella maggior parte dei casi sono i paesi meno sviluppati a ospitare i rifugiati: solo il 16 per cento di loro è accolto in paesi sviluppati. Il Niger che per lungo tempo è stato solo un paese di transito dei migranti diretti in Libia e in Algeria dall’Africa subsahariana si è trasformato in uno dei paesi più ospitali del Sahel, nonostante sia considerato uno dei paesi più poveri del mondo.
“Non ho mai pensato di andare in Europa. Troppo costoso e troppo pericoloso, vorrei rimanere in Africa. Ma il problema del Niger è il lavoro, non c’è lavoro”, spiega Kili. “Io credo che la disoccupazione, la povertà e la mancanza d’istruzione creino un terreno ideale per i terroristi. Sono venuto qui per salvare i miei figli dai terroristi, ma chi mi dice che tra qualche anno, se non troveremo di che vivere, i miei figli non si arruoleranno anche loro con i jihadisti?”, s’interroga il tuareg avvolto in una sciarpa azzurra che lo protegge dal vento caldo di Niamey.
Kili è determinato a lasciarsi alle spalle la violenza e i pericoli di un paese in guerra: “Ho abbandonato tutto, la mia casa, il mio allevamento. L’ho fatto perché cercavo un po’ di sicurezza. Ma se i jihadisti dovessero arrivare in Niger, sono pronto a partire di nuovo”. Per Kili è chiaro che se il Niger e i suoi partner internazionali non investiranno nell’istruzione, nella sanità, nella creazione di una forma di welfare diffuso, le file dei gruppi terroristici saranno sempre più nutrite.
Una nuova minaccia
Il Niger negli ultimi anni è stato sempre più spesso protagonista di attacchi terroristici di matrice islamica. Il Global terrorism index 2018 ha inserito il paese al 23° posto nella lista dei 163 paesi toccati dal terrorismo. I gruppi più attivi nel paese sono lo Stato islamico nel grande Sahara (Isgs), il Movimento per l’unicità e il jihad (Mujao), Boko haram, lo Stato islamico in Africa occidentale (Iswa) e il Gruppo di sostegno all’islam ai musulmani (Gsim), nato dalla fusione di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) con Al Murabitun, Ansar Eddine e il Fronte di liberazione del Macina. “Il Niger è circondato da sette paesi, ognuno dei quali sta esercitando una pressione migratoria. Nel nord della Nigeria si combatte da più di cinque anni contro Boko haram”, spiega Alessandra Morelli, responsabile dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel paese.
“Boko haram ha la capacità di operare al di là delle frontiere e la popolazione civile ci va sempre di mezzo: 120mila persone che hanno lasciato la Nigeria negli ultimi cinque anni si trovano in Niger, nella regione di Diffa”, continua Morelli, che coordina un ufficio di quattrocento persone nel paese. “Non solo il nord della Nigeria è in mano a Boko haram, ma anche altri due stati della Nigeria nordoccidentale (Sokoto e Kaduna) sono nel caos e in preda a un banditismo violento mischiato a jihadismo, che ha provocato lo spostamento di ventimila persone verso il Niger negli ultimi mesi”.
Questi profughi raccontano di villaggi attaccati da gruppi armati, di essere stati costretti a lasciare i propri terreni e le proprie case. La maggior parte di loro è stata accolta nella zona di Maradi, in Niger. L’obiettivo dei gruppi armati sembra essere l’esproprio dei terreni delle popolazioni civili. La situazione in Nigeria, che si ripercuote sul Niger, ricorda quella che da più tempo riguarda il Mali e, più recentemente, il Burkina Faso.
“Nella zona di Tillabéri ci sono 75mila sfollati interni nigerini, a cui si aggiungono 55mila rifugiati maliani e nell’ultimo periodo anche 1.500 rifugiati del Burkina Faso. Qui a farla da padrone è lo Stato islamico nel grande Sahara. Dal 14 maggio ai primi di giugno ci sono stati 14 attacchi terroristici in Niger, 33 persone sono state uccise”, conferma Morelli.
Gruppi terroristici attraversano i confini nigerini con grande facilità. Boko haram e Iswa penetrano nel territorio nigerino dal Ciad e dalla Nigeria. I gruppi affiliati ad Al Qaeda e al gruppo Stato islamico, invece, entrano in Niger dal Mali, dal Burkina Faso, dalla Libia e dall’Algeria. Negli ultimi mesi il paese è in grande fermento perché a luglio ospiterà il vertice dell’Unione africana, ma ci sono grandi preoccupazioni per la sicurezza. I controlli e i posti di blocco sono numerosi e il giorno prima della fine del Ramadan l’allerta era così alta che a Niamey è stato dichiarato il lockdown.
Soldati di tutto il mondo
La lotta al terrorismo e il controllo delle frontiere sono state le due motivazioni principali che negli ultimi anni hanno giustificato una massiccia presenza di militari stranieri in Niger. Dal 2012 al 2017 il governo statunitense, presente nella zona dal 2001, ha speso circa 240 milioni di dollari in programmi di assistenza e antiterrorismo per supportare le forze armate nigerine. Dal 2018 è in corso anche una missione militare italiana con 470 militari, 130 mezzi terrestri e due aerei. Ma Italia e Stati Uniti non sono gli unici due stati occidentali presenti nel paese che è considerato uno dei più militarizzati dell’Africa: ci sono anche i militari di Francia, Germania e Canada.
Nel 2014 i capi di stato di Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad, inoltre, hanno firmato una convenzione per istituire il G5 Sahel, con l’obiettivo di garantire “sviluppo e sicurezza per migliorare la qualità della vita della popolazione”. Nel 2017 gli stessi capi di stato hanno dato vita a una forza armata congiunta, con il benestare dell’Unione africana e delle Nazioni Unite. I suoi obiettivi sono più ampi rispetto a quelli di altre operazioni già in corso nella regione: oltre a migliorare la sicurezza lungo i confini condivisi, i suoi uomini devono anche promuovere la cosiddetta soft security (“sicurezza morbida”, cioè quelle misure – anche di natura preventiva – che servono a riportare la stabilità e un senso di normalità nelle aree colpite da conflitti).
I confini tra le azioni di lotta al terrorismo, sicurezza e controllo delle migrazioni sono labili
Secondo alcuni attivisti locali e internazionali, tuttavia, la presenza massiccia di militari stranieri aumenterebbe l’instabilità ed esporrebbe il paese a un rischio di maggiore radicalizzazione. “I confini tra le azioni di lotta al terrorismo, sicurezza e controllo delle migrazioni sono labili, e spesso si sovrappongono”, spiega Sara Prestianni, responsabile immigrazione dell’Arci che ha scritto un rapporto sulle politiche europee di esternalizzazione delle frontiere.
“In una missione effettuata nel dicembre del 2018 abbiamo potuto incontrare i rappresentanti dell’agenzia EucapSahel nel fortino che si sono costruiti nel cuore di Agadez. Nata come operazione antiterrorismo nella regione, EucapSahel ha ampliato la sua missione al controllo della migrazione, approfittando dei fondi sempre più copiosi sul tema. L’obiettivo è quello di rafforzare le capacità tecniche delle forze di polizia locali attraverso formazione ed equipaggiamento, assicurando il coordinamento regionale con le forze del G5 Sahel che condividono il duplice mandato su terrorismo e migrazione”, racconta Prestianni.
“Tracciare i fondi dedicati all’esternalizzazione delle frontiere e al contrasto del terrorismo non è facile, perché vengono da diversi budget. Per esempio da fondi destinati alla cooperazione come il Fondo fiduciario per l’Africa. Noi abbiamo concentrato la nostra denuncia sul fondo fiduciario perché sappiamo che viene da un finanziamento europeo allo sviluppo. Con delle logiche di emergenza questi soldi sono usciti dal controllo democratico del parlamento europeo – continua la ricercatrice – Ma questo approccio rischia di indebolire il governo e la società civile locale, sempre più dipendente dalle potenze straniere”.
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