Davanti alla stazione ferroviaria di Napoli una fila di taxi occupa piazza Garibaldi, il traffico è meno congestionato del solito e i tassisti se ne stanno a gruppetti intorno alle loro macchine ferme: hanno proclamato uno sciopero generale per chiedere sussidi che gli consentano di affrontare le perdite provocate dalla crisi del turismo nel capoluogo campano, una delle conseguenze dirette della crisi sanitaria cominciata a marzo. È solo l’ultima categoria di lavoratori che nelle ultime settimane è scesa in piazza per protestare contro le restrizioni introdotte dal governo italiano e dalla giunta regionale per limitare la diffusione dell’epidemia di coronavirus.

“La situazione a Napoli è tragica, perché l’economia della città si fonda sul turismo, Napoli si regge sugli introiti di questo settore: bed and breakfast, hotel, ristoranti, trattorie, bar, taxi, guide turistiche”, spiega Salvatore Maiorano, che fa il tassista da 17 anni, mentre si sistema la mascherina sul viso e decide di accompagnarmi a piazza del Plebiscito, dove il 28 ottobre è in corso un’altra manifestazione degli autobus turistici, degli scuolabus e dei noleggi con conducente.

“Ci troviamo in una situazione d’impotenza e anche di smarrimento, non sappiamo nemmeno noi che dobbiamo fare”, continua Maiorano, che dice di aver perso il 70 per cento dei suoi introiti a causa della crisi del turismo conseguente alla crisi sanitaria. Per Maiorano il governo dovrebbe sostenere quelli che stanno avendo delle perdite importanti: “Nel primo lockdown in Campania eravamo in campagna elettorale e alcune categorie come i tassisti hanno ricevuto dalla giunta regionale un bonus di duemila euro. Ora che le elezioni ci sono state, i rubinetti regionali si sono chiusi e la palla è passata allo stato”, spiega il tassista, che dice di essere l’unico a lavorare nella sua famiglia.

“Preferisco morire di covid che di fame”, afferma categorico, quando gli chiedo se non ha paura di prendere il virus durante le manifestazioni di protesta degli ultimi giorni. La seconda ondata dell’epidemia è arrivata anche in Italia, a sette mesi dalla prima. E, nonostante fosse prevista, ha trovato quasi tutti impreparati dal punto di vista sanitario. A questo si aggiunge la situazione economica che per alcuni settori è particolarmente grave. Durante la prima crisi sanitaria solo nel territorio di Napoli i volontari e il comune hanno distribuito la spesa a circa seimila famiglie in condizione di forte necessità.

Nell’ultima settimana molti paesi europei come Francia, Germania, Austria, Belgio e Regno Unito hanno introdotto nuove misure d’isolamento totale a causa dell’aumento dei contagi, mentre l’Italia per il momento ha adottato restrizioni più leggere, come il coprifuoco dalle 24 alle 5, la chiusura alle 18 per bar e ristoranti e quella totale di alcune attività come palestre, piscine, cinema e teatri, anche se per la prima settimana di novembre sono attese restrizioni più radicali. In Campania, una delle regioni più colpite dalla seconda ondata con quasi quattromila contagi al giorno, il governatore Vincenzo De Luca ha chiuso le scuole fino al 14 novembre e ha proclamato il coprifuoco dopo le 18. Inoltre il 23 ottobre De Luca aveva annunciato un lockdown regionale, che poi ha dovuto sospendere per l’esplosione di violente proteste.

Il presidio contro il coprifuoco in largo San Giovanni Maggiore, Napoli, 23 ottobre 2020.
(Michele Amoruso)

A Napoli quasi ogni giorno una categoria di lavoratori scende in piazza per protestare: il 23 ottobre un sit-in convocato dai ristoratori si è trasformato in una rivolta, finita in scontri con le forze dell’ordine. Un’altra manifestazione ancora più partecipata ma pacifica si è tenuta il 26 ottobre a piazza del Plebiscito, infine una il 31 ottobre a piazza Dante. Nei giorni successivi ci sono state manifestazioni in tutta Italia, da Catania a Milano. Le proteste non sono riconducibili a un’unica organizzazione, secondo quanto ricostruito dal Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, ma in ogni città sono state organizzate da gruppi diversi con rivendicazioni molto eterogenee.

A Roma, per esempio, le piazze sono state convocate in un primo momento dai neofascisti di Forza Nuova e Casapound contro la “dittatura sanitaria e il coprifuoco” e solo successivamente da altri gruppi. Invece a Napoli la contestazione è stata composita dal principio. “Una delle caratteristiche della piazza napoletana è la mancanza di bandiere”, spiega il giornalista Giulio Piscitelli. “Una parte dei movimenti di sinistra napoletani ha appoggiato la protesta dal principio, ma nella maggior parte dei casi si è trattato di proteste autoconvocate sui social network da gruppi e categorie di lavoratori che di solito non scendono in piazza o che non scendevano in piazza da tempo”. Casapound e Forza Nuova non sono radicate in città, tuttavia Casapound ha partecipato a una protesta il 25 ottobre al Vomero, senza raccogliere grandi consensi.

Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha ipotizzato il coinvolgimento delle organizzazioni criminali negli episodi più violenti delle manifestazioni di Napoli: “Le indicazioni che ci arrivano confermano la partecipazione di soggetti inquadrati nell’ambito di organizzazioni criminali di tipo camorrista. D’altro canto, sono quelle a essere più interessate alla vicinanza alle parti più sofferenti della società, per riceverne poi consenso sociale o anche per infiltrarsi attraverso le attività economiche. Nei momenti di emergenza è la camorra a trarre maggiore vantaggio a Napoli, come le mafie negli altri territori”. Anche il viceministro dell’interno Matteo Mauri è della stessa opinione.

Ma alcuni analisti ridimensionano il ruolo della criminalità organizzata. Per il giornalista Piscitelli non è stata sicuramente la camorra a organizzare le manifestazioni: “In un territorio come quello di Napoli c’è una forte probabilità che affiliati alla criminalità abbiano partecipato agli scontri, perché questa organizzazione prende il pizzo da molti commercianti e quindi li sostiene nelle loro rivendicazioni, ma non si può certo dire che sia stata la camorra a organizzare le manifestazioni: in piazza c’era moltissima gente e con ragioni diverse”. L’impressione è che anche il momento politico sia particolare, visto che il sindaco uscente Luigi de Magistris non si ricandiderà alle prossime comunali in primavera e sembra sempre meno interessato alle sorti della città: questo clima ha lasciato una sorta di vuoto di potere nel capoluogo campano, tra i più a rischio nella crisi sanitaria.

Uno dei gruppi che sta protestando da più tempo a Napoli è quello degli insegnanti e dei genitori che criticano la decisione del governatore Vincenzo De Luca di chiudere le scuole e ne chiedono l’immediata riapertura. Tristana Dini, insegnante precaria delle scuole superiori, spiega che molti ragazzi non hanno la possibilità di collegarsi via internet per seguire le lezioni a distanza e che questo è ancora più grave se si considera che in città l’abbandono scolastico è alto.

Piazza Dante, Napoli, 31 ottobre 2020. (Michele Amoruso)

“Già nel primo lockdown i bambini hanno pagato un prezzo salato, la quarantena in città è stata rigida, anche se in quel momento non c’erano molti casi di covid sul territorio”, spiega l’insegnante. “In un’area in cui le condizioni di vita sono tutt’altro che omogenee, molti bambini vivono in alloggi che sono al di sotto degli standard nazionali. Costringerli a stare a casa è una grave responsabilità, quando a scuola potrebbero passare il tempo in un ambiente socialmente più accogliente e appropriato”.

L’insegnante racconta che c’è stato un coordinamento nazionale già durante la prima ondata che ha chiesto d’introdurre una serie di misure per migliorare la scuola, ma le richieste sono rimaste inascoltate. “Ora siamo preoccupati per la preparazione dei nostri figli e per il loro futuro. La scuola è stata la prima cosa a chiudere in Campania, mentre in Francia e Germania, anche di fronte a lockdown totali, gli istituti sono rimasti aperti”, conclude Dini, molto critica con le posizioni di De Luca che in una diretta Facebook il 30 ottobre ha attaccato i genitori che insistono sulla riapertura delle scuole.

Un’altra categoria che scende in piazza da mesi nel capoluogo campano è quella dei lavoratori precari dello spettacolo, che denunciano l’insufficienza delle misure di emergenza adottate dal governo e l’assenza di misure strutturali per una tipologia di lavoratori che già normalmente è in una condizione di precarietà. Salvatore Cosentino, tecnico del suono, racconta di aver perso il 70 per cento dei suoi guadagni a causa dell’epidemia, di aver lavorato da casa per un breve periodo e soprattutto di non essere riuscito a lavorare in estate, in quella che definisce “una falsa ripartenza”, nella stagione di massima attività per la sua categoria per i tour e i concerti estivi. “Non ho potuto beneficiare nemmeno delle misure di sostegno del primo lockdown, ora ho fatto domanda per il bonus regionale”, racconta.

Nella sua condizione ci sono migliaia di altri lavoratori dello spettacolo che si sono organizzati in diversi gruppi. “Abbiamo bloccato la prima della Tosca lo scorso luglio come segno di protesta”, continua. Per Cosentino la crisi sanitaria ha fatto emergere la mancanza di tutele per i lavoratori dello spettacolo che spesso svolgono la loro attività in nero, a chiamata o con contratti di collaborazione che non prevedono ammortizzatori sociali. “La proposta al livello nazionale è d’introdurre un reddito d’intermittenza per la nostra categoria come avviene in Francia, al di là dell’epidemia, un reddito cioè che scatta nei periodi in cui non si lavora”, conclude.

Ma la categoria più numerosa nelle piazze delle ultime settimane è stata quella dei ristoratori e dei baristi, colpiti direttamente dalle ultime misure che impongono chiusure anticipate. Rosario Marasco per esempio ha partecipato insieme a sua madre a quasi tutte le manifestazioni degli ultimi giorni. Marasco dal 2014 gestisce un pub a Fuorigrotta, un quartiere nella periferia occidentale di Napoli, vicino allo stadio. Per tre mesi in primavera è rimasto chiuso, ha dovuto prendere un prestito di dodicimila euro per riavviare l’attività a giugno, ma ora teme di dovere chiedere altri soldi in prestito, se fossero decise nuove chiusure. “Noi siamo sopravvissuti alla prima chiusura, perché non abbiamo dipendenti, siamo un’azienda familiare e siamo riusciti a stringere la cinghia nonostante i mancati guadagni, un affitto di casa di seicento euro che dobbiamo pagare tutti i mesi. Ma abbiamo paura di non farcela una seconda volta”, afferma.

“Non siamo contrari al lockdown, se è necessario per ragioni sanitarie. Ma se ci chiudono devono sostenerci economicamente, altrimenti molte persone finiranno nelle mani della criminalità organizzata”. Marasco dice d’incassare ormai solo qualche decina di euro al giorno a fronte di una spesa che va dai settemila ai diecimila euro al mese per la gestione del suo locale. E in piazza non c’erano solo i proprietari dei locali e dei ristoranti, bensì anche i loro dipendenti come camerieri, cuochi e baristi, ancora di più messi in ginocchio dalla situazione. Uno dei problemi più sentiti da molti lavoratori della ristorazione è l’uso massiccio di lavoro parzialmente irregolare o lavoro grigio che di fatto ha reso inefficaci le misure di sostegno progettate dal governo per sostenere questa categoria durante la prima ondata.

“A marzo sono stata messa in cassa integrazione, ma io prendo metà dei soldi dello stipendio in nero. Quindi alla fine di cassa integrazione ho preso circa duecento euro. Soldi che non mi bastano a pagare nemmeno l’affitto”, spiega Roberta Esposito (nome di fantasia per proteggerne l’identità), barista impiegata in un locale nel centro di Napoli. In questa condizione di lavoro irregolare o semi-irregolare si trovano ampie fasce della popolazione della città. “Ci sono moltissime persone che lavorano in nero e in grigio, per tutti questi lavoratori bisognerebbe pensare a un reddito universale e inoltre dovrebbero essere sospese tasse e affitti”, continua la donna, che ha perso due parenti per il covid nella prima ondata dell’epidemia.

L’isolamento nella regione durante la prima ondata è stato severo, quando i contagi nella zona erano relativamente bassi, questo ha favorito una percezione falsata della malattia e una maggiore diffidenza rispetto alla possibilità di un secondo lockdown. A questo si aggiunge un disagio che proviene dalla crisi del turismo e dalla presenza massiccia di lavoratori irregolari.

Il documentarista e ricercatore Marcello Anselmo spiega che chi ha risentito di più della prima fase di chiusura in primavera sono stati i lavoratori in nero: dalle lavoratrici domestiche ai parcheggiatori fino ai lavoratori della ristorazione e del turismo. “Molti hanno fatto fatica ad accedere ai sussidi, dai buoni spesa alla cassa integrazione, per l’impossibilità di formalizzare le loro richieste a causa del lavoro nero o grigio”, spiega Anselmo. La città a partire dalla fine degli anni novanta ha conosciuto un boom del turismo, negli ultimi quattro anni i quartieri centrali più popolari come i quartieri spagnoli sono stati ridisegnati da un’economia informale legata a questo settore.

“Tutti hanno aperto trattorie, bed and breakfast, bar, negozi di souvenir, anche nei bassi. Sono state fatte decine di ristrutturazioni. Questo fenomeno ha trasformato la città, ha aperto un processo di mercificazione del territorio, ha espulso intere fasce di popolazione dai quartieri del centro storico, senza che il comune si preoccupasse di gestire il fenomeno. Allo stesso tempo è vero che ha sottratto braccia alla piccola criminalità, in particolare agli scippi, alle rapine. Il lockdown ha impresso una battuta di arresto a questo processo prima di Pasqua, quando sarebbe cominciata la stagione turistica. Ora sia la crisi economica sia il coprifuoco rischiano di far fare un passo indietro alla città. Il timore che hanno tutti è quello di tornare al buio degli anni novanta”, conclude il ricercatore.

Questo pezzo è stato scritto con la collaborazione di Riccardo Rosa.

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