Seduto sul muretto di un piccolo giardino a piazza Beb Jebli, una delle piazze principali di Sfax, in Tunisia, Mohammed Keita aspetta che i volontari della Mezzaluna rossa arrivino a distribuire i pasti. Vengono una volta al giorno e portano da mangiare alle decine di migranti subsahariani che da settimane sono accampati nel giardino, tra la polvere gialla del terreno e i cespugli. Dal 2 luglio, infatti, ci sono state proteste e attacchi della popolazione locale contro gli stranieri, accusati di aver ucciso un tunisino in una rissa, e da quel momento nessuno ha più voluto affittargli le case.
Molti migranti sono stati vittime di maltrattamenti da parte della polizia, alcune decine infine sono stati trasferiti con la forza in una zona desertica al confine con la Libia, a centinaia di chilometri da Sfax, dove sono stati abbandonati senza acqua, né cibo.
Keita, originario della Guinea Conakry, è stanco, affamato, ma soprattutto preoccupato perché non sa che fine ha fatto il figlio, Ousmane, di nove anni. Lo ha perso durante la traversata del Mediterraneo e ora non si dà pace. Si chiede se sia ancora vivo e cosa gli sia successo. “Nella confusione, sulla spiaggia, la notte che ci siamo imbarcati. Ci hanno messo su due piroghe diverse”, racconta. “La mia barca subito dopo la partenza è stata intercettata dalla guardia costiera tunisina e riportata indietro, mentre la sua ha continuato a navigare”. Da quel momento non ha saputo più niente del bambino: spera che sia arrivato a Lampedusa perché in quelle ore non c’è stata nessuna notizia di naufragi, ma non ne ha la certezza.
Keita ora pensa solo a riprovare la traversata. “Ma non ho i soldi da dare ai trafficanti, li ho finiti”. È arrivato in Tunisia dalla Guinea il 20 aprile 2023, ha trascorso quattro mesi a Tunisi, lavorando in un albergo per guadagnare il denaro necessario a partire. Ha dovuto aspettare agosto.
Conosce già l’Europa: “C’ero arrivato nel 2007, sempre attraverso il mare. Ho lavorato e mi sono dato da fare, però non avevo i documenti in regola e ho deciso di tornare a casa. Ma la situazione economica nel paese è terribile, non c’è lavoro. Così quest’anno ho deciso di nuovo di riprovare, portando con me mio figlio”. Ha una sorella che vive in Francia, e vorrebbe raggiungerla.
È partito a gennaio da casa, ha attraversato il Burkina Faso, il Niger e l’Algeria per arrivare in Tunisia. “Per quelli come me le cose in Tunisia sono molto peggiorate dopo che il presidente Kais Saied ha fatto certe dichiarazioni controverse”, osserva. “Da quel momento i tunisini hanno smesso di affittarci le case, si fa fatica a trovare lavoro. Ci sono gruppi di tunisini che ci molestano, vengono a provocarci per picchiarci. La maggior parte delle persone dorme per strada, abbiamo grossi problemi”, denuncia, riferendosi al discorso in cui a febbraio Saied accusava i migranti subsahariani di volere eliminare i tunisini in un piano di “sostituzione etnica”, usando una delle principali teorie del complotto di stampo suprematista, diffusa di solito da gruppi politici dichiaratamente xenofobi e razzisti in tutto il mondo.
Keita ha speso duemila dinari per provare ad attraversare le 99 miglia marittime che separano le coste di Sfax da Lampedusa, la piccola isola del Mediterraneo che è il primo punto di approdo per i migranti sulla rotta tunisina. Ma già due tentativi sono andati a vuoto. La prima volta sono stati intercettati e la seconda è stata fermata solo la sua barca e riportata a Djerba, nel sud del paese. Ha dovuto camminare a piedi per chilometri per raggiungere di nuovo Sfax, il principale porto di partenza dei migranti. Ora vuole a tutti i costi provare di nuovo: “I trafficanti sono tutti tunisini”, assicura.
Partenze aumentate
Secondo il ministero dell’interno italiano, quest’anno le persone arrivate attraverso la rotta tunisina hanno superato quelle approdate con la rotta libica e sarebbero aumentate di più del 300 per cento nei primi mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo del 2022. E anche se l’Unione europea ha siglato con Tunisi un Memorandum d’intesa che tra le altre cose mira a rafforzare il controllo delle frontiere e il loro pattugliamento, le persone continuano a partire dirette a Lampedusa. Anzi, per Matteo Villa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), le partenze sarebbero addirittura aumentate dopo la firma del memorandum il 16 luglio. In queste otto settimane sono arrivate in Italia dalla Tunisia quasi 31mila persone, mentre nelle otto settimane precedenti agli accordi ne erano arrivate 19mila.
I principali porti di partenza sono Sfax, le isole Kerkenna, Mahdia, ma anche Zarzis più a sud. Rispetto agli anni passati, la novità è il numero di migranti che arrivano dall’Africa subsahariana e dall’Africa occidentale che vengono in Tunisia per salire su piccole imbarcazioni di ferro, molto precarie, riempite anche con trenta o quaranta persone. “Preferiamo venire in Tunisia che andare in Libia”, spiega Fatima Sefahie, una donna originaria del Burkina Faso. “Qui si è aperta un’occasione per noi”. La Libia infatti è considerata più pericolosa a causa delle violenze efferate e sistematiche a cui sono sottoposti gli stranieri nel paese. Molti raccontano di avere attraversato il deserto tra Algeria e Tunisia a piedi.
Sfax, Tunisia, agosto 2023
Per raggiungere la Tunisia Sefahie ha camminato per giorni nel deserto senza cibo, insieme ai suoi due bambini. Ora dorme su un materasso nella piazza di Sfax, mentre i figli giocano con gli altri bambini, incuranti di quello che accade intorno. Alcuni cucinano con dei fornelli da campo, altri offrono piccoli servizi come il taglio dei capelli o le acconciature con le treccine, per raccogliere qualche soldo in cambio. “Non è facile vivere così, per una donna è ancora più difficile. Qui non ci affittano le case, non possiamo lavarci, non possiamo lavorare”, racconta Sefahie.
“Quando piove siamo sotto l’acqua, quando è caldo, siamo sotto al sole. Non ho nulla di mio, zero”, continua, mostrando un sacchetto di plastica che contiene qualche vestito. La polizia, in seguito a dei controlli, spesso prende i telefoni e gli oggetti di valore agli stranieri. “Nel deserto stanno morendo un sacco di persone, anche donne e bambini. Sono senz’acqua, senza cibo”. Anche Sefahie ha già provato ad attraversare il mare, come la maggior parte delle persone in questa piazza, ma è stata respinta e riportata al punto di partenza dalla guardia costiera tunisina. “La prima volta c’è stato un naufragio, sono morti dei bambini in acqua. Noi siamo sopravvissuti”. Non ha paura di morire: “Sarà dio a decidere. Ma finché vivo continuerò a provare. Non c’è alternativa per me, qui non posso restare”.
Ibrahim Djallo e Boubacar Bari hanno 13 e 14 anni, sono originari della Guinea Conakry. Sono partiti perché le famiglie non avevano soldi per mandarli a scuola. “Vogliamo aiutare le nostre famiglie, lavorare in Europa”, dice Djallo mentre beve un succo di frutta riparandosi dal sole sotto a un cespuglio. Anche loro hanno camminato per chilometri nel deserto tra Algeria e Tunisia. “Lì a Kasserine è un problema grosso per noi migranti: la polizia ci ha derubato, ci ha picchiato con dei coltelli, ci hanno minacciato, poi ci hanno lanciato addosso dei cani”, racconta Djallo. Boubacar Bari è stato morso, si tira giù i pantaloni per mostrare i segni lasciati dai denti dei cani.
Anche i due ragazzi stanno aspettando di avere abbastanza soldi per fare la traversata, non hanno ancora provato. Non sono spaventati. “Non sappiamo quando riusciremo a partire, quello che è sicuro è che ci proveremo”, continua Djallo. Intanto è arrivata una buona notizia: il figlio di Mohammed Keita è sbarcato sano e salvo a Lampedusa, è nell’hotspot e se ne sta prendendo cura un amico di Mohammed, un compaesano. “È vivo”, sospira Keita, che sta cercando di mettersi in contatto con il ragazzo e spera che la sorella possa andare a prenderlo dalla Francia. “Ora non vedo l’ora di riabbracciarlo”.
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