Dove oggi ci sono un prato e un parco pubblico che circonda gli archi dell’acquedotto Alessandrino, che collega il centro di Roma alla sorgente di Pantano Borghese sulla via Prenestina, un tempo c’era un campo da calcio in cui venivano ad allenarsi i ragazzi di Torpignattara, un quartiere popolare della periferia orientale della città nato nei primi del novecento.

Oggi il parco – diventato il simbolo di un multiculturalismo non privo di conflitti – porta il nome di un partigiano gappista, Giordano Sangalli, morto a sedici anni in battaglia, durante l’occupazione nazista della capitale nel 1944. Nel parco a ridosso dell’acquedotto, voluto dal comitato di quartiere e dai cittadini della zona nel 2010, la scorsa estate si è consumata un’aggressione razzista contro due famiglie straniere residenti da molti anni nella zona, che ospita una delle più grandi comunità bengalesi in Europa.

Secondo le ricostruzioni, due minorenni e un ragazzo di 25 anni del quartiere hanno aggredito alcuni bengalesi, che erano nel parco per festeggiare il compleanno di uno dei loro figli. Dei bambini bengalesi giocavano con un pallone, che gli è stato sottratto da un ragazzo più grande del quartiere. La sorella maggiore dei bambini bengalesi ha chiamato le famiglie, perché intervenissero a difesa dei fratelli. Ma la tensione è subito salita, i ragazzi del quartiere hanno cominciato a insultare i bambini con frasi razziste, poi sono passati alle mani. Un uomo bengalese è stato ferito in modo grave al collo con una bottiglia dagli aggressori, che poi sono scappati.

I giorni successivi nel parco è stato convocato un presidio da parte di tutte le associazioni che animano le attività interculturali della zona, ma alcuni abitanti delle palazzine popolari all’estremità del parco sono scesi per contestarlo. Solo una persona è stata fermata, ma la vicenda ha riaperto vecchie ferite. “Per noi insegnanti impegnati ogni giorno a scuola con i ragazzi è stato un trauma. Per questo abbiamo organizzato un presidio il giorno successivo”, racconta Vania Bosetti, insegnante della scuola Carlo Pisacane di Torpignattara.

“Quel parco è sempre stato un po’ di frontiera, noi con la scuola ci facciamo tante attività, è frequentato dagli immigrati e dagli studenti, ma c’è anche una piccola criminalità da sempre presente”, spiega Borsetti. “Anche se il quartiere si è gentrificato, c’è una sottocultura molto popolare, anche violenta. È un fenomeno molto antico in queste zone di Roma, raccontato anche da grandi autori come Pier Paolo Pasolini”, aggiunge l’insegnante.

Per Borsetti questi episodi sono sempre meno frequenti, ma ogni tanto scoppiano dei conflitti tra i vecchi abitanti e i nuovi, tra una sottocultura popolare e criminale e le famiglie di immigrati. “Ci è andata bene che non è morto nessuno. La cosa grave è se episodi di questo tipo vengono trattati come normali”, dice Borsetti.

E per questo il quartiere ha reagito convocando una grande manifestazione il 2 luglio 2024, che è stata molto partecipata e ha richiesto al municipio l’assegnazione di una bocciofila all’interno del parco per dare una sede alle associazioni. “L’unico modo per contrastare la violenza è creare iniziative culturali: infatti quando i ragazzi escono dalla scuola dell’obbligo in questo tipo di quartieri, sono lasciati da soli e si riaggregano intorno a vecchie culture della violenza”, conclude Borsetti.

Una lunga storia

Da almeno vent’anni Torpignattara soffre di un racconto che la descrive come una polveriera pronta a esplodere, oppure la indica come un modello di inclusione da seguire, ma nel frattempo ci sono stati diversi episodi violenti che hanno lasciato un segno profondo nella memoria degli abitanti, come l’omicidio nel settembre 2014 di un ragazzo pachistano di 28 anni, Muhammad Shahzad Khan, picchiato e ucciso da un diciassettenne, incitato dal padre affacciato al balcone di via Ludovico Pavoni.

“Ammazzalo”, gridava l’uomo mentre il figlio prendeva a pugni il ragazzo, uccidendolo. Due anni prima, durante una rapina erano stati uccisi in via Giovannoli un cinese di 31 anni, Zhou Zheng, e la figlia di sei mesi. L’uomo stava rientrando a casa dopo avere chiuso il suo negozio.

“La storia di Torpignattara è legata all’immigrazione: il quartiere è nato proprio come insediamento di lavoratrici e lavoratoriimmigrati che si trasferivano dal sud e dalle campagne italiane a Roma all’inizio del novecento”, racconta Carla Ottoni, presidente dell’associazione Bianco e nero, che ogni anno organizza il festival di cinema Karawan proprio nel parco Sangalli, ospitando proiezioni di pellicole da tutto il mondo. Secondo Ottoni nel quartiere si sperimentano da anni buone pratiche di dialogo tra le diverse comunità di stranieri, ma le istituzioni sono assenti.

Parco Giordano Sangalli, Torpignattara, 2 luglio 2024. Una manifestazione antirazzista dopo le aggressioni contro delle famiglie bengalesi. (Simona Granati, Corbis/Getty Images)

“Tutto è ancora autorganizzato, manca un progetto di lungo periodo”, continua Ottoni. Anche per questo, secondo l’attivista, di tanto in tanto si riaccendono le tensioni tra le famiglie più marginali della zona e le comunità di stranieri. “Siamo nati nel 2012 per riportare il cinema a Torpignattara, una delle aree più densamente abitate di Roma, dove non ce n’è neanche uno. Quando abbiamo cominciato non c’erano offerte culturali, a parte il teatro off. Volevamo riabituare il quartiere all’esperienza del cinema e non ci siamo mai più fermati”, afferma Ottoni, che quest’anno nella rassegna di Karawan ha previsto la proiezione di C’è ancora domani di Paola Cortellesi con i sottotitoli in bengalese.

“Quest’anno il clima di tensione era percepibile, ci siamo sentiti una specie di presidio culturale e sociale nel parco, mentre altri soffiavano sul fuoco. A un certo punto sono venuti anche degli esponenti di CasaPound a fare una passerella”, spiega l’operatrice culturale.

L’unicità di Torpignattara è confermata da Alessandra Broccolini, professoressa di antropologia del territorio all’università Sapienza di Roma. Nella memoria del posto rimane la sua origine: “è una specie di quartiere-paese in cui si sentono parlare più dialetti italiani”. Negli anni settanta la zona si è spopolata a causa della presenza di un maggiore degrado e della criminalità, ma poi dagli anni ottanta e novanta gli abitanti sono ricominciati a aumentare, soprattutto grazie alle comunità di stranieri, in particolare bengalesi e cinesi che si sono trasferiti nella zona.

“Negli anni novanta sono cominciati i primi conflitti tra i vecchi e i nuovi abitanti”, continua Broccolini, secondo cui il quartiere rappresenta bene l’evoluzione delle migrazioni straniere in Italia e del loro racconto nei mezzi d’informazione. Per Torpignattara si può parlare di una “superdiversità”, cioè di un’area in cui convivono molte culture diverse.

Al momento la comunità bengalese del quartiere è ben radicata: sono proprietari di ristoranti e piccole aziende, commercianti, “persone che producono ricchezza e pagano le tasse”. Anche per questa ragione, nella zona il tasso di ricongiungimenti familiari da paesi stranieri è molto alto. Nel corso degli anni, tuttavia, è cresciuta la tensione tra le diverse comunità: prima a causa della presenza dei bambini stranieri nelle scuole del quartiere, poi dei conflitti condominiali, infine della presenza di luoghi di culto anche informali.

L’aumento di xenofobia e razzismo

Il 23 ottobre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri), un organo del Consiglio d’Europa, ha pubblicato un rapporto che ha fatto molto discutere perché denuncia l’aumento del razzismo e della xenofobia in Italia. Secondo l’Ecri nel paese l’accesso ai servizi pubblici come la sanità e l’istruzione è ancora molto complicato per gli stranieri e tra le altre cose diversi ostacoli sono causati dalle difficoltà di ottenere la cittadinanza.

L’Ecri cita il caso di alcune scuole italiane che, violando le regole, subordinano l’iscrizione dei bambini alla presentazione di una “prova di residenza” di cui i genitori dei bambini non sono necessariamente in possesso, per esempio se sono richiedenti asilo: l’accesso alla scuola dell’obbligo dovrebbe invece essere garantito a tutti i bambini, indipendentemente dalla condizione giuridica.

L’Ecri scrive inoltre che il discorso pubblico italiano è “diventato sempre più xenofobo e i discorsi politici hanno assunto toni divisivi e antagonistici, in particolare nei confronti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti”. Questo quadro generale è osservabile anche nel microcosmo di uno dei quartieri più multietnici d’Italia e ha provocato passi indietro nel processo di trasformazione e di integrazione. L’effetto più evidente è la trasformazione degli stranieri in invisibili, la loro criminalizzazione e l’incapacità delle istituzioni di mettere a sistema le buone pratiche d’inclusione sperimentate nel corso degli anni.

“Torpignattara ha tre templi indù e cinque moschee in luoghi ricavati in garage, magazzini e altri posti non idonei. Questo perché non ci sono spazi messi a disposizione dalle istituzioni. Ma le cose sono cambiate nel corso di questi dieci anni. Per esempio, la condivisione con gli altri abitanti del pasto serale che interrompe il digiuno durante il Ramadan ha aiutato a fare accettare le moschee della zona”, aggiunge Broccolini, che rileva però diverse nuove tendenze da parte della comunità bengalese.

Le nuove generazioni di bengalesi nate in Italia da genitori stranieri stanno lasciando il paese, considerato ostile e xenofobo, per andare nel Regno Unito, dove pensano di avere più possibilità di inclusione e lavoro. Inoltre nelle moschee del quartiere stanno prendendo piede letture religiose più tradizionali e conservatrici, che prevedono una chiusura maggiore della comunità.

“Anche quando le comunità di stranieri sono più incluse, si rischiano episodi di xenofobia e intolleranza. È qualcosa che ha a che fare con la costruzione dell’identità. Una parte dei vecchi residenti, soprattutto i discendenti del sottoproletariato, non si sente rappresentata dal discorso pubblico sul quartiere multiculturale, si sente esclusa da questo tipo d’immagine”, spiega.

“Lì dove c’è più inclusione, c’è sempre un maggiore pericolo di chiusura e radicalizzazione. Ma allo stesso tempo però c’è la storia di molte famiglie che ormai si sono radicate e hanno creato relazioni profonde nel quartiere. Siamo ormai alla terza generazione di bengalesi nati in Italia”, conclude l’antropologa. In totale nel quinto municipio di Roma sono circa diecimila.

Per Vania Borsetti, maestra della Pisacane, “il timore è quello che alcuni gruppi politici possano provare a soffiare sul fuoco”, com’è successo in passato, soprattutto in vista delle elezioni amministrative. Secondo Borsetti il quartiere vive una dimensione di forte e diffuso impegno contro il razzismo, con un lavoro ormai storico contro un approccio coloniale, ma questo convive con l’esistenza di sacche di povertà e arretratezza profonda, che resistono e anzi si sentono sempre meno rappresentate e invece minacciate, e quindi rischiano di esprimersi in una forma violenta.

“La nostra realtà quotidiana si nutre di un livello alto d’immaginazione e utopia, e quindi ogni tanto si scontra con un’altra che coesiste accanto alla nostra e la contraddice, ma le due percezioni della realtà convivono nel quartiere da sempre e a volte si scontrano”, spiega Borsetti. Durante gli attacchi della scorsa estate, “la cosa più impressionante è stato vedere il trauma in questi ragazzini bengalesi che sono abituati a convivere con altri coetanei italiani e che non avevano mai avuto esperienza di un razzismo così profondo”, conclude.

La guerra in classe

Il lungo cammino della scuola Pisacane e dell’idea che potesse diventare un modello, mentre era additata come un problema, è cominciato intorno al 2006, quando l’allora ministra dell’istruzione Mariastella Gelmini voleva mettere un tetto massimo al numero di stranieri consentiti per classe. Lo racconta Cecilia Bartoli, educatrice, psicologa, psicoterapeuta e tra le fondatrici dell’associazione Asinitas per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri.

“Facevo la psicologa all’interno della Pisacane e intorno al 2006 ci siamo resi conto che i bambini di origine straniera entravano a scuola a tre anni senza avere frequentato l’asilo, nido e quindi vivevano uno spaesamento linguistico forte, difficoltà a distaccarsidalla madre, con cui avevano parlato fino a quel momento solo nella lingua del paese di origine. Abbiamo capito quindi che dovevamo coinvolgere le madri, altrimenti la scuola avrebbe avuto effetti traumatici sui figli”, continua Bartoli.

Secondo la psicologa, le madri straniere – in particolare quelle bengalesi – non lavorano e hanno spesso molte gravidanze, una dopo l’altra. Per questo, insieme a ragioni di tipo culturale, non hanno lo stesso accesso ai corsi d’italiano per stranieri attivi sul territorio, rispetto agli uomini della stessa comunità. “La nostra scuola di stato non prevede la possibilità di frequentare un corso con un bambino in età prescolare. Per questo abbiamo attivato dei corsi d’italiano con uno spazio per i bambini sotto ai tre anni, in cui le madri possono venire a studiare l’italiano”, ricorda Bartoli.

Quest’idea è stata centrale per i progetti d’integrazione dell’istituto.I corsi hanno avuto un enorme successo di partecipazione. Si è passati dalle sei studenti del primo anno alle attuali centocinquanta.

“Alcune di queste donne sono diventate delle colleghe dopo il primo passaggio formativo e linguistico cominciato con noi. Hanno preso la licenza media, fatto i corsi da mediatrice culturale e ora sono diventate delle operatrici sociali e fanno parte della nostra squadra”, aggiunge Bartoli, che parla di “interazione” e non di “integrazione” per descrivere il lungo processo di costruzione di una comunità multietnica in cui si possa convivere nelle differenze, anche a partire da grosse disuguaglianze.

“Sembra che sia solo una questione di politicamente corretto e invece non è così, siamo partiti da una situazione di forte squilibrio, ma siamo riuscite a costruire una comunità più ugualitaria. Per fare questo siamo cambiate, ci siamo dovute autoeducare. Le differenze e le disuguaglianze rimangono, ma ora c’è qualcosa di completamente diverso, un’interazione che all’inizio non esisteva”, continua.

Tra il 2006 e il 2010 la scuola Pisacane è diventata il simbolo, anche nella narrazione comune e nei mezzi d’informazione, della presenza straniera nelle classi italiane. “C’erano manifestazioni tutti i giorni fuori dall’istituto, strumentalizzazioni da parte dei mezzi d’informazione e della politica”, conclude la psicologa. Ma insegnanti, operatrici e genitori hanno deciso d’investire “sulla costruzione della comunità” e non sul “conflitto”. “Avremmo potuto costruire muri contro muri, invece abbiamo deciso che dovevamo creare un luogo d’incontro”.

La preside all’epoca era Simonetta Salacone ed era considerata un’autorità sul territorio, avendo fatto un lavoro importante di messa in rete delle scuole, cercando delle soluzioni con le autorità, in un momento in cui dal ministero dell’istruzione venivano fatte grosse pressioni per ridurre il numero di stranieri consentiti per classe.

“Le insegnanti sono state brave, secondo me, perché hanno resistito a condizioni molto complicate, ma come noi hanno scelto di puntare sul rafforzamento della comunità. Se io creo un posto in cui le persone s’incontrano, convivono e creano qualcosa di cui beneficiano insieme, anche nella loro diversità, quello poi diventa un modello”, spiega Bartoli.

I livelli di negoziazione sono stati diversi: sia con le famiglie di origine italiana che non volevano gli stranieri nelle classi sia con le famiglie straniere, che non accettavano all’inizio molti dei percorsi innovativi che erano proposti. “Oggi molte studentibengalesi frequentano corsi di arti marziali misti ed è qualcosa di incredibile, perché nel loro paese d’origine nessuna di loro potrebbe partecipare a questo tipo di attività, tanto meno insieme a dei ragazzi”, afferma la psicologa.

Secondo Maria Coletti, attivista dell’associazione Pisacane 099, formata dai genitori della scuola, “la storia dell’attivismo all’interno dell’istituto” può far capire com’è cambiato il quartiere. “Quando sono arrivata nel 2012 con mia figlia, la scuola si stava spopolando, nessuno si voleva più iscrivere, perché c’erano troppi stranieri”, racconta. Per Coletti negli ultimi dodici anni l’attività culturale e politica, oltre a quella ordinaria della scuola, è stata così importante che alla Pisacane attualmente gli iscritti sono sempre più numerosi. Oggi l’istituto è diventato un modello d’inclusione, ricco di progetti e programmi alternativi: per questo molte famiglie, anche da altri quartieri, ci iscrivono i propri figli. Le famiglie di stranieri e in particolare le bengalesi, invece, preferiscono la Grazia Deledda, che propone programmi più tradizionali.

“La scuola è il luogo della costruzione della cittadinanza, come diceva già Piero Calamandrei”, afferma Coletti, che racconta l’attivismo dei genitori, autoorganizzati e coinvolti nelle iniziative dell’istituto. “Abbiamo preso molti congedi dal lavoro per partecipare alle attività della scuola e per renderla un luogo accogliente per tutti. In dieci anni la Pisacane e il quartiere sono cambiati radicalmente”, continua. In ogni battaglia politica “a un certo punto sembra che gli attivisti non servano più”, ma questo secondo l’attivista non è vero, e può diventare un errore strategico pensarlo.

Per la donna la partecipazione attiva dei genitori è stata una delle chiavi del successo della scuola, che negli anni è diventata un modello. Molti sostengono, tuttavia, che il problema principale sia proprio il fatto che nel tempo le istituzioni non abbiano adottato le buone pratiche, rendendole parte del sistema educativo di quartieri multietnici come Torpignattara. E abbiano confidato troppo nella dedizione spontanea e autoorganizzata dei cittadini.

“Le istituzioni non hanno investito su quel modello e ancora oggi molto di quello che è fatto appare come un’eccezione e una novità, viviamo in un eterno presente che diventa una trappola”, spiega Bartoli. Quest’assenza di riconoscimento rende possibile la cancellazione sistematica del passato e gli episodi di violenza aprono nuove ferite, che rischiano di fare ricominciare ogni battaglia sempre da zero.

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