Eccone uno. Un occhio esperto l’ha individuato su un sito di offerte immobiliari di Roma. L’appartamento è luminoso, i mobili sono bassi, squadrati e di legno chiaro, idem la testata del letto e i comodini, e poi c’è la lampada con l’abat-jour e sulle poltroncine foderate di cotone bianco sono sistemati gli asciugamani, mentre da un vassoio di plastica spunta un set per il bagno e la doccia.

Arredi e accessori per un affitto breve: siamo dunque su Airbnb o su un’altra delle piattaforme che propongono case per un paio di giorni o per un week-end. Così sembrerebbe, invece l’alloggio è per un affitto a lungo termine, quattro anni più quattro.

Ma – è sempre l’occhio esperto che mette sull’avviso – prima dell’infezione da covid-19, l’appartamento era evidentemente destinato a una coppia di turisti in visita per qualche giorno nella capitale. Turisti non ce ne sono, chissà quando torneranno e il proprietario le sta provando tutte per evitare che quel bene resti infruttuoso. Nella fretta non ha neanche cambiato le foto.

Lo sfruttamento del desiderio
Non è detto però che gli vada bene. Anzi, è assai difficile, dovrebbero succedere tante cose, ma intanto ci si prova a fronteggiare il crollo di un’economia fondata sulla rendita, come dicono gli specialisti, e che nell’ultimo decennio ha cambiato il volto e anche l’anima di città o di parti più o meno grandi di città. Con gli affitti a breve sono diverse le attività legate al turismo travolte dalla pandemia e che riapriranno chissà quando o che potrebbero non aprire più.

Airbnb, che è un colosso, nonostante sia nato appena nel 2008, saprà come lenire le ferite. Ma come faranno i tanti proprietari anche di un solo appartamento con il quale integravano un modesto reddito? E cosa ne sarà di quartieri consegnatisi mani e piedi a queste forme di impresa? Cosa accadrà di vie e di piazze un tempo dimesse e impoverite, poi gentrificate, cioè rianimatesi e scandite da bistrot, pizzerie a taglio e birrerie che hanno fatto lievitare i valori immobiliari, espulso tanti residenti sostituiti con residenti più ricchi - vie e piazze rumorosamente popolate fino a notte fonda da assembramenti che a lungo saranno improponibili?

Per ora nelle aree di pregio delle città, nei centri storici, si scopre il valore del silenzio

Che conseguenze avrà sulla città la batosta subita da un’economia basata, dicono sempre gli specialisti, sulla produzione e distribuzione di beni immateriali e voluttuari, sullo sfruttamento del desiderio?

Per ora nelle aree di pregio delle città, nei centri storici, si scopre il valore del silenzio. A Venezia non arriveranno grandi navi, mentre già si scorge distintamente il fondo dei canali. Ma, oltre alle voragini sociali, potrebbero spalancarsi altri vuoti, potrebbero restare abbassate tante saracinesche, spegnersi tante luci nelle strade e formarsi deserti urbani, un po’ come nella Detroit dell’industria automobilistica disastrata nel 2008. Ma, al contrario, potrebbero anche offrirsi occasioni per voltare pagina, per riportare residenti nei centri storici, per esempio, o per recuperare spazi a iniziative di interesse pubblico, culturali e di solidarietà, o per nuovi lavori.

Aperta la fase due si può tornare a riflettere. “Sarebbe triste non avere altra scelta tra quel modello di sviluppo così fragile e che molti di noi hanno contestato, e il crollo di quello stesso modello, che provoca danni alle persone e alle città”, esordisce Giovanni Semi, professore di sociologia delle culture urbane a Torino e autore nel 2015 di Gentrification. Tutte le città come Disneyland e ora di Casa dolce casa? scritto insieme a Manuela Olagnero e Marianna Filandri (entrambi editi dal Mulino).

Eppure la questione potrebbe davvero finire davanti a quel bivio. A meno di un ripensamento nelle politiche sulla città. “Cresceranno poi le disuguaglianze”, aggiunge Semi, “perché sopravviverà il comparto del lusso, il ristorante d’alta fascia, mentre sarà difficilissimo per i giovani che hanno aperto un piccolo locale, i cui clienti non prenotavano sull’app”.

Da Roma a Venezia
L’appartamento scovato sul sito è in un quartiere semicentrale di Roma, investito parzialmente dalla trasformazione massiccia di case da residenziali a turistiche che invece ha coinvolto altre zone della capitale. Il sito Inside Airbnb, che ne tiene una minuziosa contabilità, calcola che a Roma siano 29.436 le offerte caricate sulla piattaforma californiana. Stando al rapporto commissionato dall’Ente bilaterale turismo del Lazio a Sociometrica, oltre il 50 per cento di questi appartamenti si trova nel I municipio, cioè nella città storica, e buona parte dell’altro 50 per cento è in zone limitrofe. Dal 2016 al 2019 l’incremento è stato del 46 per cento. Sarebbero oltre 13 milioni ogni anno le presenze turistiche in questo comparto dell’ospitalità romana, per un giro d’affari di 480 milioni.

Se si aggiunge il sommerso, è facile quindi stimare in ben oltre 30mila gli appartamenti che resteranno vuoti nella capitale per almeno un anno. Potrebbero tornare sul mercato dell’affitto ordinario, riequilibrando il rapporto fra visitatori occasionali e residenti stabili completamente saltato a Roma, come in molti altri centri storici? “Ciò sarebbe possibile in un contesto di crescita economica”, risponde Semi, “ma non mi sembra questo il caso, molte persone usciranno dalla crisi ulteriormente impoverite”.

Gli fa eco Sarah Gainsforth, che nel 2019 ha pubblicato la documentata analisi Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (Derive Approdi): “Forse caleranno i canoni d’affitto, ma caleranno anche i redditi: a Roma l’economia è ferma da anni, i vuoti aperti ai piani terra, i negozi che chiudono sono un problema di lungo periodo. La crisi del covid aggrava una condizione preesistente, alla quale si è cercato di rispondere con l’esplosione degli Airbnb”.

Piazzale Michelangelo, Firenze, 2 maggio 2020. (Simone Donati, TerraProject/Contrasto)

L’esplosione ha fatto un gran botto, ma poi, salito al cielo il fumo, sono rimaste le ceneri. E ora? Da Roma l’ansia si propaga in tutta la penisola. Per un bel po’ i turisti che circoleranno in Italia saranno solo italiani. “E se Roma, come Venezia o Firenze, possono pensare di recuperare turisti nel giro di qualche anno, altre città faticheranno di più”, aggiunge Semi, che pensa alla sua Torino, dove “molte iniziative commerciali programmate prima del virus sono già svanite”.

Ma conviene sperare di richiamare masse di turisti? “Evidentemente no”, è la risposta secca di Semi. Inoltre, aggiunge, “la pesante recessione in cui siamo immersi si tradurrà in uno shock di liquidità che impedirà la rinascita del turismo nella forma che abbiamo conosciuto”.

A Firenze, dove gli appartamenti su Airbnb sono 11.262 (sempre secondo Inside Airbnb), anche un loro parziale ritorno sul mercato appare complicato. “Negli ultimi anni molti alloggi sono stati frazionati, da uno di 140 metri quadrati se ne sono ricavati anche tre per affittarlo a turisti”, spiega l’urbanista Ilaria Agostini, animatrice del laboratorio politico Per un’altra città. “D’altronde tutto il centro storico di Firenze ha subìto una trasformazione in senso turistico, favorita dall’amministrazione comunale. Sono stati venduti tanti edifici pubblici, anche di pregio. Secondo i nostri calcoli, le vendite hanno interessato oltre il 58 per cento di tutte le operazioni effettuate negli ultimi cinque anni. E la superficie occupata da alberghi è cresciuta di 47mila metri quadrati”.

Quasi una casa su quattro a Venezia non è abitata da persone che vi risiedono

Se Firenze dovrà fare i conti con spazi che potrebbero finire abbandonati, con bilanci comunali dissestati dal crollo delle tasse di soggiorno e con redditi immiseriti, a Venezia il covid-19 è piombato proprio mentre la città riprendeva fiato dopo l’alluvione di metà novembre 2019. Trenta, trentacinquemila persone delle 52mila che vivono nella città insulare – stima l’economista Giampietro Pizzo, esperto di microfinanza – sono legate in vario modo a un turismo che fino alla primavera del 2021 non si riaffaccerà.

A Venezia sono 8.469 gli appartamenti proposti da Airbnb per affitti brevi. Considerando che in totale sono circa 40mila, stando a un rapporto curato dal Cresme e dall’Associazione nazionale centri storici e artistici (Ancsa), ecco che quasi una casa su quattro a Venezia non è abitata da persone che vi risiedono. Da qualche anno, inoltre, la piattaforma californiana insieme ad altre agenzie sta colonizzando anche Mestre e Marghera. E le case in affitto si affiancano agli alberghi, molti dei quali si sono insediati in edifici di proprietà pubblica poi venduti, come a Firenze: dal palazzo Papadoli che ospitava la polizia municipale, al palazzo Donà, dove avevano sede i servizi sociali del comune, o al palazzo Corner Contarini, occupato un tempo dalla corte d’appello.

Venezia è il caso estremo di una città che si è adattata al turismo: flussi giornalieri di decine di migliaia di persone, fino a centomila nei periodi di punta, da 27 a 30 milioni di presenze all’anno, e poi il commercio, la ristorazione e i servizi per chi percorre le calli e i campielli anche per poche ore. Pizzo usa una metafora tratta dalla saggezza contadina: “Mai mettere le uova in un solo paniere, il rischio di romperle tutte e di rompere anche il paniere è troppo grande. E invece la conseguenza più evidente di tanti processi di globalizzazione è proprio questa: tutte le uova in un solo paniere. A Venezia si va avanti così da decenni, con un turismo di massa sul quale agiscono attività finanziarie e immobiliari. E si continua in modo inerziale: nel pieno della crisi che ha svuotato la città è stato sottoscritto l’accordo per trasformare l’enorme area del Lido dove c’è l’Ospedale al mare in un complesso turistico di lusso. Protagonista Cassa depositi e prestiti. Sono sicuro che non se ne farà nulla, ma intanto ancora si ragiona come se niente fosse”.

E invece? “A Venezia possiamo proporci diversi obiettivi”, risponde Pizzo, “potremmo, per esempio, riportare residenti nella città insulare approfittando degli appartamenti vuoti”. Ma come? I canoni sono tremendamente alti e i proprietari temono che, una volta dentro, chi prende in affitto una casa non andrà più via. “È evidente che non ci si può affidare al mercato. Né pensare che sia questa l’unica soluzione. Può però intervenire il pubblico dando un sostegno a chi vuole affittare e garanzie finanziarie e anche legali al proprietario. Purtroppo il dibattito è ancora congelato, si spera solo che tornino masse di turisti. E poi Venezia è piena di interi edifici sfitti e in attesa di diventare alberghi. Perché non immaginare che questi grandi contenitori ospitino imprese sociali, lavori di nuova generazione? Se vince la paura, vincono le soluzioni al ribasso. Il vuoto dà l’occasione per politiche che tengano insieme la casa e il lavoro, l’unica via che consenta a Venezia di non tornare nella morsa di un turismo che è pura attività di rendita”.

Rivitalizzare i rapporti
Le proposte si moltiplicano. Alberto Ferlenga, rettore dell’Università Iuav di Venezia, ha ipotizzato che una quota di appartamenti vuoti possa andare agli studenti fuori sede. Che nella sola città insulare si stima siano seimila, più del 10 per cento dell’intera popolazione residente. Questi ragazzi si arrangiano in condizioni disagiatissime, ma potrebbero invece dare ossigeno alla residenza anche dopo la laurea. E poi c’è il settore delle produzioni agricole e alimentari, messo ai margini dall’economia turistica che predilige pizzerie a taglio e take-away, e che invece, insiste Pizzo, “è un pezzo di economia locale che in questa crisi ha resistito: si va dal patrimonio ambientale delle isole in laguna fino alla cintura rurale appena fuori da Mestre”.

Consentire a bar e ristoranti di occupare altro suolo pubblico, senza neanche pagare tasse è come “tagliare il ramo su cui si sta seduti”

Un rapporto rivitalizzato città-campagna è anche l’idea di Agostini per Firenze. Dove ci sono solo negozi per turisti, bar e locali che invadono piazze e strade con pesanti gazebo in acciaio, sostiene l’urbanista, “potrebbero tornare l’artigianato e il mercato dei prodotti di un territorio contadino”.

E in generale lo spazio pubblico, aggiunge Agostini, “deve riprendersi il posto quale perno per la riorganizzazione della città: lo spazio pubblico, diceva Simone Weil, ‘è un’esigenza dell’anima’”. Quello spazio pubblico nel quale le persone s’incontrano sentendosi cittadini e non solo consumatori, e dove invece, spiega Semi, si è esercitata con costanza la gentrificazione: “Quei luoghi aperti ad attività di consumo individuale e collettivo sono quanto di più distante dalla teoria dello spazio pubblico elaborata dalla filosofia politica e dalla teoria sociale novecentesca (Habermas, Arendt, Sennett, Calhoun). Sono le piazze con i tavolini dei bar e dei ristoranti, i lungofiume rigenerati, i parchi attrezzati per attività all’aperto. Insomma gli spazi urbani del divertimento e dell’intrattenimento, un vasto territorio della città dove si accede a pagamento e dove architetti e designer hanno dettato legge”.

Questo genere di vita collettiva riprenderà? E quando? Intanto l’amministrazione comunale di Roma vuole consentire a bar e ristoranti di occupare altro suolo pubblico, senza neanche pagare tasse – “è come tagliare il ramo sul quale si sta seduti”, chiosa Semi.

Occorre essere ambiziosi
E poi, che cosa resta in eredità, solo buchi da riempire o anche occasioni per cambiare direzione di marcia? Agostini pensa per il futuro a una città “ridondante”, cioè “l’opposto della città dell’austerità che per garantire servizi sempre più risicati s’indebita dando in garanzia o vendendo edifici pubblici che potrebbero essere altrimenti utilizzati proprio per fornire servizi”. Servizi che dunque possono essere visti come “ridondanti” rispetto alle funzioni per le quali quegli edifici erano stati pensati: caserme che non diventano hotel di lusso o che restano lì vuote a deperire perché il mercato immobiliare è fiacco e che invece – come auspica anche Giampietro Pizzo per Venezia – possano accogliere alloggi di edilizia popolare, giovani che cercano locali per lavori innovativi, associazioni culturali, di quartiere, di volontariato, presidi ambulatoriali o anche abitazioni temporanee per trascorrere una quarantena e perfino trasformarsi in reparti ospedalieri d’emergenza.

Insomma, pezzi di città si liberano e bisogna ripensarne gli usi, sostiene Alessandro Leon, economista, presidente del Cles, centro di ricerche da anni impegnato sui temi dell’economia urbana e della cultura.

Ma un punto, a suo avviso, va tenuto fermo: ci vorrà più intervento pubblico. “L’abbandono di alcuni temi prettamente pubblici, come l’urbanistica, ha avuto effetti drammatici”, dice Leon. “Ci si è affidati alla rendita turistica, ma la rendita costituisce sempre un problema, perché espelle la popolazione dalle zone più ricche e centrali della città, ostacola l’investimento delle imprese, rallenta l’innovazione tecnologica, frena l’imprenditoria giovanile”.

Tutte iniziative, aggiunge l’economista, che vanno riportate nella città consolidata, compresi i centri storici. “Bisogna rendere conveniente abitare e produrre nelle aree centrali. Una città il cui centro si svuota e si riempie di turisti, è più costosa. Ora si offre l’occasione per invertire il cammino, incentivando la formazione di distretti culturali, legati all’editoria, al cinema, al teatro, al design”. Come?

Con una forte iniezione di risorse pubbliche, spiega Leon, anche a debito e arrivando persino a prevedere strumenti come l’esproprio: “Non è facilissimo, ma occorre essere ambiziosi”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it