“Per Jack, per noi, per tutti: riprendiamoci la città”, recita lo striscione che apre il corteo del 28 settembre, mentre davanti alla stazione ferroviaria di Mestre continuano ad arrivare persone, anziani e ragazzi, attivisti e famiglie con bambini, che sciamano dalle vie vicine. I turisti che non riescono a raggiungere un treno per Venezia si guardano intorno smarriti, senza capire cosa stia succedendo. A otto giorni dalla morte di Giacomo Gobbato, 26 anni, accoltellato il 20 settembre nel tentativo di sventare una rapina, Mestre si riscopre unita, animata da un’energia nuova, che sembra davvero volersi riappropriare di ogni angolo dimenticato della città.

Il corteo è rumoroso e pacifico. Lo guidano la madre di Gobbato e gli amici. Si attraversa il luogo dell’omicidio, corso del Popolo, ci si ritrova alla fine nella centrale piazza Ferretto. Lungo il percorso, in molti si affacciano alla finestra e applaudono. A fine giornata si parla di più di diecimila presenze. Di sicuro, c’è l’adesione di oltre cento gruppi e comitati, da Marghera a Venezia, delle associazioni dei commercianti, dei sindacati, degli studenti, della comunità bengalese.

In un’intervista a un quotidiano locale, a poche ore dall’appuntamento, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha descritto la manifestazione come politicizzata, affermando che “chi ci va è a favore di chi gira con il coltello”.

Turismo e retate

L’uccisione di Giacomo Gobbato da parte di un cittadino moldavo incensurato e senza dimora ha riportato l’attenzione su una città percepita sempre di più come insicura. Negli ultimi anni sono aumentati, a Mestre come a Venezia, i casi di violenza e accoltellamenti legati allo spaccio di droga, così come le rapine e i furti. Inoltre, dopo Roma Venezia è la seconda città italiana in cui si muore di più per overdose di eroina (sei vittime dall’inizio dell’anno), con un aumento continuo di dipendenze e consumatori sempre più giovani. Fenomeni peggiorati dal disgregarsi del tessuto sociale e dall’abbandono di intere aree della città, che si sta spopolando sia in laguna sia in terraferma, anche a causa della speculazione legata all’inesorabile espansione turistica.

In quasi dieci anni di amministrazione, le risposte di Brugnaro sono state prevalentemente all’insegna della repressione, con retate spettacolari e interventi dell’esercito, e al sistematico depotenziamento dei servizi sociali, come da tempo denunciano le opposizioni.

Negli ultimi due anni si è costituito spontaneamente un coordinamento di associazioni cittadine che ha dato il via a una grande mobilitazione, con una prima assemblea pubblica nel dicembre 2022 e la manifestazione intitolata Riprendiamoci la città, che nel febbraio 2023 ha portato in strada più di cinquemila persone.La scorsa estate la contestazione si è fatta più dura, con diverse centinaia di cittadini che hanno chiesto le dimissioni del sindaco dopo l’arresto del suo ex assessore alla mobilità Renato Boraso, accusato di corruzione.

“Abbiamo cominciato a confrontarci con altre associazioni perché in diverse parti della città c’erano gli stessi problemi. Abbiamo anche la stessa idea di come costruire una realtà diversa, così da vivere insieme in una società multietnica e complessa”, spiegano Nicola Ianoale e Fabrizio Preo, del gruppo di lavoro di via Piave.

Il gruppo è attivo dal 2006 e ha la sua sede in uno dei tanti negozi sfitti di uno dei quartieri che si è più trasformato in questi decenni, con l’arrivo di molti stranieri. “Di fronte al cambiamento”, raccontano, “abbiamo deciso di cominciare un processo di conoscenza reciproca, a differenza di molti che avrebbero preferito costruire muri e mantenere il più possibile la distanza”.

Qui l’associazione (che esiste formalmente dal 2014) propone laboratori e incontri, mostre d’arte e fotografia, presentazioni di libri, corsi di lingua italiana gratuiti per gli stranieri. Ogni estate, inoltre, il gruppo organizza una cena di quartiere aperta a tutti, in cui chiunque può contribuire portando del cibo da casa, con centinaia di partecipanti. Gli attivisti stimano che in questi anni più di centomila persone siano passate per i molti eventi che hanno organizzato.

Mestre, 28 settembre 2024. Durante la manifestazione per Gobbato. (Mirco Toniolo, Rbmultimedia/Agf)

Seguendo il loro esempio, altre realtà hanno trovato ospitalità negli spazi vuoti sotto i portici di via Piave, dalla portineria di quartiere all’associazione Viva Piraghetto, che si occupa della rigenerazione di un parco cittadino; da Tapu, collettivo che esplora il legame tra arte e disabilità, alla scuola che propone corsi di lingua cinese e italiana per far avvicinare le due comunità.

La rete che si è costituita in questi due anni mette insieme realtà diverse sia per l’età dei partecipanti sia per il modo di lavorare, mostrando quanto sia trasversale la voglia di ripensare la città, ricostruendo la sua comunità.

Il laboratorio climatico Pandora è uno spazio nato nel centro di Mestre nel 2021, quando un collettivo di attivisti ventenni ha deciso di occupare uno stabile dell’ex ospedale Umberto I, dismesso nel 2008 e da quel momento diventato un buco nero nel mezzo della città, comprato di recente da una catena di supermercati che progetta una nuova area commerciale e appartamenti di lusso.

“Abbiamo dovuto occupare per prenderci uno spazio e aprirlo alla cittadinanza”, spiegano Laura Fontolan e Valentina Valerio. “E abbiamo scelto un luogo trattato come irrecuperabile, considerato pericoloso, con l’idea di intervenire in una zona che in questi due anni è cambiata completamente”. Fin dall’inizio, l’occupazione ha incontrato il sostegno delle famiglie del quartiere Piave. Lo spazio è diventato sede di presentazioni, riunioni studentesche e assemblee, utilizzato come aula studio, luogo di feste ed eventi, nucleo della rinata scena rap e freestyle cittadina.

“Vogliamo ridare vita agli spazi che in questo momento sono vuoti, in una città che abbandona tanto i luoghi quanto le persone, tagliando i servizi e dimenticandosi di tutti quelli che vivono ai margini: tantissime persone a cui è tolta la possibilità di vivere una vita degna. Non sono mostri, sono fantasmi. E noi con queste persone cerchiamo di parlare”, continuano le due attiviste. In tre anni l’unico scambio con il comune è stato invece la richiesta di sgombero. “Eppure abbiamo dimostrato che facendo vivere qualcosa lo sottrai al degrado”.

È quello che è successo, pochi chilometri più in là, con il centro sociale Rivolta, nato nel 1995 dall’occupazione di una fabbrica nella estesissima zona industriale di Marghera. In quasi trent’anni di attività, il Rivolta è diventato uno dei punti di riferimento in Italia per un certo modo di fare politica, con un approccio radicale ma anche molto pragmatico. Come quando, per esempio, gli attivisti hanno cominciato a portare coperte a chi durante l’inverno dormiva nelle stazioni della zona, dando vita a un progetto che ha ospitato i senzatetto all’interno del centro sociale nei mesi più freddi, in dialogo con il comune, che non aveva abbastanza posti letto. Allo stesso modo, fin dai primi tempi il centro è stato un presidio per la prevenzione della tossicodipendenza, in cui è scoraggiato l’uso di droghe pesanti. Oggi qui sono ospitati alcuni richiedenti asilo e si tengono corsi di italiano per stranieri, con l’idea di dare a tutti i mezzi per far parte della società.

“L’intenzione è quella di costruire un nuovo welfare in città”, riflette Michele Valentini, storico attivista del Rivolta e tra i fondatori del comitato Marghera libera e pensante. La collaborazione con le molte associazioni di quartiere, dai gruppi parrocchiali ai collettivi studenteschi, sembra quanto mai naturale in questo momento. “È incredibile la ricchezza che esiste in questa città. Noi vogliamo mettere insieme mondi diversi e costruire un laboratorio nuovo”.

Per ottenere tutto questo è sempre più importante riuscire a rovesciare il discorso dominante. Giacomo Gobbato era legato al Rivolta, era un attivista e un musicista della vivace scena punk hardcore veneziana. Parlando della sua morte, il Rivolta ha subito tracciato una linea chiara: “Non accettiamo strumentalizzazioni. Esigiamo di non essere usati da chi semina odio”.

Sebastiano Bergamaschi era insieme a Jack, la sera che sono stati aggrediti in corso del Popolo. Nel tentativo di fermare il rapinatore è stato ferito alle gambe e ora si appoggia alle stampelle. “Trovo il dibattito sui giornali di questi giorni davvero offensivo”, riflette. “Si cerca sempre la soluzione più facile, indicando un capro espiatorio o un nemico da attaccare. Va mantenuto invece il senso critico”.

Quella notte Bergamaschi ha perso uno dei suoi migliori amici, ma non vuole per nessuna ragione cadere nella retorica dell’odio o nelle risposte securitarie. “La paura è il sentimento su cui si prova a far leva. Ed esacerbare la guerra tra poveri insistendo sul degrado spesso alimenta quella paura da cui in molti si avvantaggiano a livello elettorale”.

“È normale provare paura”, continua. “Ma il primo punto è capire che il problema è molto più complesso. E chi governa un territorio questa consapevolezza deve averla. Tutti noi abbiamo la possibilità di fare cose che possono cambiare la vita nei quartieri. E la responsabilità di far capire che questa è davvero l’unica soluzione possibile”.

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