Certi giorni la vita a Kabul è soffocante per Hadis Lessani Delijam, una ragazza di 17 anni che frequenta l’ultimo anno delle superiori. Un giorno per strada un uomo l’ha rimproverata perché era truccata e vestiva all’occidentale. È una vergogna, le ha urlato l’uomo. Un’altra volta una donna di mezz’età l’ha insultata perché chiacchierava con un ragazzo. “Mi ha detto delle cose così brutte che non ho il coraggio di ripeterle”, racconta la ragazza.
Quando vuole stare tranquilla si rinchiude in un posto inaspettato: un bar. “Solo qui posso rilassarmi e sentirmi libera, anche solo per poche ore”, racconta Delijam, seduta a capo scoperto in un bar, vicino a due ragazzi con cui sta chiacchierando.
Negli ultimi tre anni a Kabul sono nati molti caffè alla moda, simbolo dei progressi fatti dalle donne, alle quali offrono rifugio da una cultura islamica che vorrebbe dettare il modo in cui si vestono e si comportano in pubblico, in particolare con gli uomini. A diciotto anni dalla caduta dei taliban, alcune usanze faticano a scomparire. Il regime dei mullah proibiva alle bambine di studiare, costringeva le donne a restare chiuse in casa e a indossare il burqa quando uscivano.
Una linea rossa
Nei bar capita spesso di sentir parlare dei negoziati di pace sull’Afghanistan tra gli Stati Uniti e i taliban. La paura di molte donne è che la questione dei loro diritti sia tenuta in scarsa considerazione dalla delegazione taliban, composta da soli uomini, molti dei quali fondamentalisti. “Siamo terrorizzate”, dice l’artista Maryam Ghulam Ali, 28 anni, mentre divide una fetta di torta al cioccolato con un’amica al caffè Simple. “Ci chiediamo cosa ne sarà di noi se torneranno i taliban.Quando veniamo al bar ci sentiamo libere”, aggiunge. “Nessuno ci costringe a indossare il velo”.
Molte ragazze che frequentano i bar di Kabul erano bambine quando i taliban sono andati al potere. Delijam non era ancora nata. Sono cresciute in anni di lotte giovanili contro le rigide imposizioni di una società patriarcale. Sono diventate grandi usando i telefoni e i social network, e oggi non hanno paura di esprimersi liberamente. Per loro è impensabile tornare alla bigotteria dei taliban, che hanno fatto lapidare donne sospettate di adulterio e continuano a farlo nelle aree sotto il loro controllo.
Per tradizione le donne nubili appartengono ai padri e quelle sposate ai mariti
Farahnaz Forotan, 26 anni, giornalista, ha lanciato una campagna sui social network con l’hashtag #myredline (la mia linea rossa) per spingere le donne a combattere per i loro diritti. Sulla sua pagina Facebook pubblica le sue foto nei caffè, che sono una rappresentazione della sua personale linea rossa. “Andare al bar per parlare con gli amici mi rende estremamente felice”, racconta Forotan in un caffè di Kabul. “Non ho alcuna intenzione di rinunciarci”. Queste libertà potrebbero svanire se i taliban riprendessero il potere. “Non voglio essere solo la sorella o la figlia di qualcuno”, spiega. “Voglio essere riconosciuta come essere umano”.
Fuori dei bar il ritmo dei cambiamenti è dolorosamente lento. “Quando camminiamo per strada siamo molestate continuamente”, racconta Forotan. “C’è chi ci chiama prostitute, occidentalizzate. Dicono che apparteniamo alla ‘generazione della democrazia’, come se fosse una colpa”.
L’Afghanistan è quasi sempre agli ultimi posti nelle classifiche dei paesi che rispettano i diritti delle donne. Per tradizione le donne nubili appartengono ai padri e quelle sposate ai mariti. I matrimoni combinati sono frequenti, e spesso le ragazze sono costrette a sposare un cugino o un altro parente. Nelle campagne le bambine sono vendute come spose a uomini più anziani. Ci sono ancora i delitti d’onore: donne uccise da parenti maschi perché hanno avuto contatti non autorizzati con uomini estranei alla famiglia. Le protezioni offerte dalla costituzione afgana e da un’importante legge del 2009 sui diritti delle donne non sempre sono applicate con rigore.
Nel 2014 i taliban lanciarono una serie di attacchi contro bar e ristoranti a Kabul. Un attentato suicida e una sparatoria causarono la morte di ventuno clienti del noto bar Taverna du Liban, dove si servivano alcolici e uomini e donne afgani si mescolavano agli occidentali. Dopo quell’episodio il governo costrinse bar e alberghi a chiudere per evitare nuove violenze. Nei due anni successivi gran parte della vita sociale di Kabul si è svolta nelle case private. Nel 2016 però hanno aperto nuovi bar, attirando ragazze e ragazzi che volevano frequentarsi anche in luoghi pubblici. Tuttavia, se si escludono i locali di città come Kabul, Herat e Mazar i Sharif, in Afghanistan sono pochi i luoghi pubblici dove le donne possono mescolarsi agli uomini. La maggior parte dei ristoranti riserva le sale più importanti agli uomini e ospita donne e bambini in settori separati “per famiglie”.
Istinti umani
Ecco perché i bar di Kabul sono così preziosi per le afgane. “L’istinto umano è forte quanto la religione”, sostiene Fereshta Kazemi, un’attrice e produttrice afgana statunitense. “Tutti abbiamo bisogno di comunicare, condividere, amare e stabilire un contatto visivo con altre persone”.
Dopo la caduta del regime taliban nel 2001, le nuove autorità hanno incoraggiato quegli istinti: le ragazze e le donne di Kabul hanno potuto frequentare scuole e università, lavorare a fianco degli uomini nelle aziende private e nella pubblica amministrazione, e perfino vivere da sole o con amiche in appartamenti. La costituzione attualmente in vigore riserva alle donne 68 seggi (almeno due elette in ognuna delle 34 province) sui 250 del parlamento. La necessità di tutelare queste conquiste è uno dei temi più discussi nei bar della capitale.
Mina Rezaee, trent’anni, è la proprietaria del caffè Simple a Kabul. Cerca sempre di fare in modo che nessuno infastidisca le clienti se indossano abiti moderni o siedono accanto agli uomini. “Qui la cultura la fanno le donne, non gli uomini”, dice. Indica un tavolo dove alcune donne a capo scoperto ridono e chiacchierano con dei ragazzi. “Guardatele, lo adoro”, dice Rezaee. “Sono i taliban a dover cambiare la loro ideologia, non noi. Questa è la mia linea rossa”.
Tahira Mohammadzai, 19 anni, è cresciuta a Kandahar, una città del sud, roccaforte dei taliban. Era ancora piccola quando i fondamentalisti governavano il paese. La sua famiglia è scappata in Iran ed è tornata a Kabul sette anni dopo, quando lei si è iscritta all’università. “Mia madre mi ha raccontato quanto fosse diversa la vita allora”, racconta al bar Jackson, chiamato così in onore di Michael Jackson. “Oggi è impossibile tornare a vivere in quel modo”. La sua linea rossa? Preferirebbe continuare a convivere con la guerra, piuttosto che avere un governo composto anche da taliban. “Se torneranno, sarò la prima a scappare”.
Farahnaz Forotan, la fondatrice del movimento #myredline, dichiara di voler restare nel suo paese, nonostante tutto. Mentre si rilassa al bar, con i capelli neri corti in bella vista, sogna un altro tipo di locale: “Mi piacerebbe che il bar si riempisse di politici, con un’unica priorità: la pace”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.
Fatima Faizi è una giornalista afgana che lavora per il New York Times a Kabul. Sarà al festival di Internazionale Ferrara (dal 4 al 6 ottobre) con la giornalista afgana Farahnaz Forotan e l’opinionista pachistana Rafia Zakaria per un incontro sui diritti delle donne in Afghanistan.
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