Si chiamava Mawda ed era nata in Germania il 14 aprile 2016. I suoi giovani genitori erano fuggiti dal Kurdistan iracheno insieme al primo figlio, che oggi ha quattro anni, per raggiungere dei parenti nel Regno Unito. Erano convinti di lasciarsi la violenza e la guerra alle spalle, ma è in Europa, su un’autostrada belga, che Mawda ha trovato la morte. Nella notte tra il 16 e il 17 maggio 2018, mentre la polizia inseguiva il furgone su cui viaggiava con la sua famiglia e una ventina di altre persone dirette clandestinamente nel Regno Unito, è stata raggiunta da un colpo sparato da un agente. Ferita alla testa, è morta poco dopo nell’ambulanza.
È morta sola, perché i genitori nel frattempo erano stati ammanettati per essere trasferiti in una cella. Invece di ricevere un sostegno, sono stati trattati come criminali, e questo dice tutto sul senso della vicenda, indipendentemente dall’esatta dinamica dei fatti. Le indagini ufficiali stabiliranno senz’altro che il poliziotto intendeva colpire la ruota del veicolo. È la tesi difesa da giorni dalle autorità, che hanno anche già individuato i responsabili della morte di Mawda: i trafficanti di migranti, come ha dichiarato il portavoce del ministro dell’interno due giorni dopo l’accaduto.
La morte di Mawda non è stata causata dal traffico di migranti, ma è la conseguenza di decenni di politiche repressive europee in materia di asilo e migrazione. I genitori di Mawda sono doppiamente indesiderati: dopo essere riusciti a entrare “illegalmente” sul territorio dell’Unione europea (come se esistesse un modo legale per farlo), hanno osato proseguire il loro viaggio verso il Regno Unito, sfidando il regolamento di Dublino, in base al quale sarebbero dovuti restare nel primo stato membro dov’erano stati identificati. E poiché per raggiungere il Regno Unito, ora che Calais è diventata un avamposto delle tecnologie di sorveglianza, conviene passare dal Belgio, i genitori di Mawda sono entrati in una terza categoria di indesiderati, i “transmigranti”.
Quest’orrida espressione è fiorita sulla stampa belga a fine gennaio, quando il governo ha annunciato dei controlli rafforzati sulle autostrade, nei parcheggi e nelle stazioni (controlli affidati in parte ad aziende di sicurezza private) per scoraggiare il transito verso la Manica. Per lo stesso motivo, e già da tempo, a Bruxelles le autorità hanno moltiplicato gli arresti nel parco Maximilien e nella Gare du Nord, due luoghi di ritrovo per le persone decise a raggiungere il Regno Unito. Operazioni che hanno provocato un grande movimento di solidarietà, spingendo migliaia di cittadini a ospitare queste persone.
È passata una settimana dalla morte di Mawda e già si sono svolti diversi raduni di protesta e di sostegno alla famiglia della piccola, che si costituirà parte civile. Il primo corteo è partito dal campo di Grande-Synthe, nel nord della Francia, occupato soprattutto da profughi curdi. Anche la famiglia di Mawda si era fermata lì in attesa di tentare la traversata della Manica. La mattina del 17 maggio, appena ricevuta la notizia della morte della bambina, un centinaio di profughi si è diretto verso l’autostrada vicina, bloccando il traffico per un’ora.
Il 23 maggio a Bruxelles almeno seicento persone hanno manifestato chiedendo giustizia per Mawda. Il raduno era stato organizzato da una rete di associazioni e cittadini nata per commemorare i vent’anni dell’assassinio di Semira Adamu, una giovane richiedente asilo nigeriana soffocata dagli agenti della scorta durante un tentativo di rimpatrio. All’epoca l’assassinio di Semira scosse profondamente la società belga, che scoprì la brutale realtà dei centres fermés (i centri di identificazione ed espulsione) e delle operazioni di rimpatrio.
Nel 1998 come oggi, la risposta che il Belgio e il resto dell’Unione europea danno a chi cerca rifugio è un violento rifiuto
Dopo l’ondata di sdegno e il terremoto politico provocati dalla vicenda, quella realtà fu dimenticata. Gli arresti, la detenzione e le espulsioni di persone in soggiorno detto irregolare sono proseguiti nell’ombra, ed è solo di recente, in reazione alle misure sempre più dure dell’attuale governo, che i belgi si sono sentiti spinti a prendere posizione. Criticato per la collaborazione con il regime sudanese sui rimpatri e per la decisione di rinchiudere nuovamente nei centres fermés le famiglie con figli minorenni, il governo è ora chiamato a rispondere della morte di Mawda.
Nel 1998 come oggi, la risposta principale che il Belgio e il resto dell’Unione europea danno a chi cerca rifugio è un violento rifiuto. Ma oggi questa violenza può contare su molti più mezzi in termini di leggi, finanziamenti, accordi con paesi terzi, strutture e personale. Ed è sempre più diffusa, sempre più visibile, sempre più difficile da ignorare. “Oggi dei cittadini accolgono in casa dei migranti per proteggerli dalle retate. Vi ricorda qualcosa?”: era uno dei messaggi di un’operazione di sensibilizzazione lanciata a novembre in Belgio, in piena polemica sui rimpatri in Sudan.
Mawda è nata in un’Europa che non la voleva. La sua stessa esistenza era una sfida alle politiche anti-migratorie e anti-asilo europee, una sfida a chi pensa che i suoi genitori sarebbero dovuti rimanere in Iraq e farla nascere lì, uno smacco per chi lavora quotidianamente – da dietro una scrivania, durante vertici e negoziati, firmando accordi e pattugliando le frontiere – alla chiusura dell’Unione. Per questo la sua morte non deve sorprendere. Per questo, forse, scuoterà il Belgio come vent’anni fa il paese fu scosso dalla morte di Semira.
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