Jovenel Moïse è morto, assassinato a casa sua. Il presidente è stato ucciso nel corso di un’operazione svolta con precisione chirurgica che ha provocato un solo ferito: la moglie di Moïse, Martine. Il presidente in carica di Haiti, protetto da una guarnigione di persone armate, è rimasto vittima di un’azione violenta senza essere soccorso da nessuno dei suoi fedelissimi collaboratori. È un fatto inimmaginabile, spropositato, incredibile. Quando all’alba del 7 luglio 2021 il paese si è svegliato con questa notizia, una cappa di sbigottimento ha avvolto ogni cosa. Non un rumore, un grido, una lacrima. Non era il momento di esternazioni chiassose né di dare sfogo al dolore. Il paese ha trattenuto il respiro. Alcuni si sono indignati in silenzio, ma la maggior parte delle persone si è presa tempo per meditare sulla precarietà di tutto in un paese sempre più debole, fragile e insicuro.

Istituzioni deboli

Le circostanze dell’omicidio sono da chiarire, se mai si farà luce sull’accaduto. Intanto Haiti sprofonda nel vuoto, le istituzioni agonizzano, i legami sociali sono ridotti al minimo, la coesione nazionale è sfilacciata. Non si può fare ora un bilancio della presidenza di Moïse, ma le conseguenze della sua amministrazione già mettono il paese di fronte a una scelta delicata: continuare senza fermarsi o fermarsi per organizzare una consultazione?

Tutto sembra difficile: gli ostacoli enormi, le sfide colossali. La scomparsa del presidente non faciliterà le cose, aprirà solo nuove prospettive per un paese con mezzi limitati e pochi politici competenti. I problemi di Haiti si toccano con mano, così come i rischi che la situazione degeneri. L’ultima volta in cui l’isola perse un presidente in modo violento, nel 1915, si spalancò la porta a oltraggi di ogni genere. Alcuni furono gravissimi. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati