Il 17 aprile 1975 i soldati dei khmer rossi entrarono a Phnom Penh, in Cambogia, e presero il potere. Era l’epilogo di quasi dieci anni di guerra civile cominciata nel 1967 con le rivolte di Battambang e proseguita con il generale Lon Nol, sostenuto dagli statunitensi, che aveva deposto il re Norodom Sihanouk nel marzo 1970. Questi eventi, nel contesto internazionale della guerra fredda e del conflitto in Vietnam, avrebbero portato alla più terribile delle dittature comuniste.
D’ispirazione maoista, questo regime guidato da intellettuali che avevano studiato in Francia affermava di essere capace di creare in un modo autarchico una società senza classi, libera dall’influenza capitalista, dal colonialismo occidentale e dalla religione.
Per raggiungere questo scopo sfruttava quella che considerava essere la sola parte non “contaminata” della società, i contadini. Per lo più molto poveri, analfabeti e arruolati con la forza, furono il braccio armato di un regime responsabile di almeno 1,7 milioni di vittime.
Ricordi inenarrabili
Nel 1975 Mak Remissa aveva quattro anni. Come la maggior parte degli abitanti della capitale aveva dovuto lasciare Phnom Penh nelle ore successive all’occupazione. Con il pretesto di un bombardamento imminente dell’esercito statunitense, i khmer rossi avevano ordinato a tutti di allontanarsi “solo per tre giorni”, chiedendo di non portare via molte cose visto che sarebbero tornati presto.
All’epoca Phnom Penh era diventata un’enorme città in cui avevano trovato rifugio due milioni di persone, per lo più profughi fuggiti dalle province per evitare la guerra civile. Tutti dovettero lasciare la capitale, che sarebbe diventata una città fantasma abitata solo da pochi funzionari ministeriali, fino al 7 gennaio 1979 (per tre anni, otto mesi e venti giorni), quando le truppe vietnamite cacciarono i khmer rossi.
In un caos indescrivibile, la folla aveva lasciato la città. Mentre piccoli soldati vestiti di nero perquisivano le case per cacciare gli abitanti. In bicicletta, in moto, in risciò, gran parte a piedi o i più fortunati su un carretto spinto a mano, tutti erano dovuti scappare con quel poco che potevano prendere.
Anche l’ospedale era stato sgomberato con i malati, cacciati con le flebo ancora attaccate al braccio. Chi era troppo debole si accasciava a terra e i morti erano abbandonati sul ciglio della strada.
Mak Remissa scappò con la famiglia, ma è difficile fargli raccontare cosa ha vissuto. Verso la metà degli anni novanta ho fatto l’errore di chiederglielo. Lo sguardo che mi ha lanciato in quell’occasione e che non dimenticherò mai mi ha impedito definitivamente di rifargli la domanda.
Come molti superstiti, il racconto era per lui impossibile. Tuttavia, durante un pranzo di cinque anni dopo, mi avrebbe ricordato la mia domanda e avrebbe ricostruito senza fermarsi la lunga serie di orrori che aveva dovuto sopportare in un campo per bambini, dove si doveva alzare alle cinque del mattino e un aguzzino adolescente sceglieva a caso una persona e la uccideva brutalmente davanti ai suoi compagni.
Per riuscire a costruire una serie in grado di evocare la sua storia personale, Remissa è dovuto diventare fotografo. Studente dell’università reale di belle arti di Phnom Penh, è stato tra i primi a scegliere la fotografia come specializzazione. Forse per mantenere un legame diretto con la realtà o forse per evitare lezioni basate sulla copia di modelli, obbligatoria in pittura, scultura e ceramica. E più probabilmente per avere un mestiere e un lavoro.
Verso la metà degli anni novanta, con il suo diploma in tasca, al Centro culturale francese si è appassionato alla stampa in bianco e nero. Remissa ha voluto soprattutto imparare a “raccontare storie” come lo fanno i giornali.
Il suo primo obiettivo è stato quello di essere riconosciuto come professionista, di essere incisivo sia nella sintesi dell’attualità attraverso una semplice foto sia nei racconti più lunghi per le riviste, che in quel momento cominciavano a nascere e a svilupparsi a Phnom Penh. Esigente, preciso, il fotogiornalista è riuscito molto presto a vivere del suo lavoro.
Ma ne ha scoperto anche i limiti. E anche se oggi è considerato il più brillante reporter del paese ed è noto per aver organizzato stage e consigliato i più giovani, Remissa sa relativizzare un mestiere dal quale ha preso le distanze.
Teatro delle ombre
Anche se il suo ruolo di corrispondente di un’agenzia di stampa internazionale – che oggi gli chiede di realizzare dei video, cosa che non gli piace molto – gli garantisce una certa tranquillità economica, è quasi l’unico tra i professionisti dell’informazione in Cambogia a realizzare ogni due o tre anni una serie strettamente personale. Tutte serie legate a elementi, come l’acqua e il fuoco, o alla crudeltà della natura e alla sua indispensabile protezione.
È proprio cercando delle tracce per parlare della Terra che è nata la serie sull’evacuazione di Phnom Penh il 17 aprile 1975. Impossibile sapere, capire veramente come e perché.
Sono forse ricordi della polvere nella stagione secca, del passaggio dalla città alla campagna con le sue tinte brune. Non importa. Per la prima volta Remissa si è riappropriato della sua storia, ha detto “io” ed è tornato sul suo passato tragico. Per farlo si è ispirato alla tradizione cambogiana del teatro delle ombre in cui, dietro un telo bianco illuminato da un fuoco appeso con fibre di noce di cocco, si fanno sfilare delle marionette fatte in cuoio di mucca o di bufalo. Remissa ha però lavorato con figure di carta, sistemate su un terreno sassoso e ha bruciato le noci di cocco. Ci sono piccoli uomini in controluce, il Wat Phnom, il tempio cambogiano della fondazione della città, motorini abbandonati e la folla che spinge biciclette, che porta quello che può, camminando in modo spettrale.
◆ Mak Remissa è uno dei dodici finalisti del premio Pictet. I lavori degli autori selezionati saranno esposti dal 15 dicembre 2021 al 6 gennaio 2022 al Victoria & Albert Museum di Londra. Il nome del vincitore sarà svelato in occasione dell’inaugurazione della mostra. La serie di Mak Remissa Left three days è stata pubblicata sotto forma di fanzine dalle Éditions de l’œil e come portfolio a colori, in otto copie, da Immanences éditions. Il lavoro farà parte del libro dedicato alla nona edizione del premio Pictet, Fire, pubblicato da teNeues.
In due occasioni ci sono anche dei bambini, probabilmente dei piccoli Remissa. E anche un morto, dietro a cui passa un corteo di donne che portano sulla testa un fagotto irrisorio. I colori sono sobri, ai limiti del monocromo, un bianco e nero appena venato di tinte brune per il terreno.
Durante quegli eventi Mak Remissa perse suo padre, suo nonno e tre zii.
Ha dedicato a loro queste immagini, così come a tutte le vittime dei khmer rossi. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati