Bea e la sua famiglia – la figlia Agnes e il marito Glen, che non è il padre di Agnes – vivono da tre anni come nomadi nelle Terre Vergini, come parte di un programma sperimentale per studiare come gli esseri umani interagiscono con la natura. Nel mondo immaginato del romanzo – non molto lontano dal nostro futuro, come Cook lascia intendere – il protetto e recintato stato delle Terre Vergini è l’ultimo lembo di natura rimasto, tutti gli altri sono stati suddivisi in base all’utilità. A Bea manca la città. Ma l’aria lì era diventata tossica e Agnes si stava ammalando. “Ciò di cui ha bisogno questa bambina”, aveva detto un medico a Bea mentre la piccola Agnes tossiva sangue, “è un’aria diversa”. Partecipare all’esperimento, con le sue regole severe e i controlli obbligatori dei ranger, era la loro ultima possibilità. Un mondo quasi perfetto riesce a essere un romanzo speculativo sul futuro e un racconto ben documentato sulla vita primitiva, con punte di freccia, pelli e tutto il resto. Come veniamo presto a sapere, l’aria delle Terre Vergini può aver curato Agnes, ma l’esperimento sembra sgretolarsi per ragioni non chiare a Bea e ai suoi compagni. I ranger stanno diventando imprevedibili, le loro richieste meno ragionevoli. Cook è abilissima a dosare le rivelazioni. Ogni volta che cominciamo a compiacerci delle Terre Vergini, Cook cambia il punto di vista, l’arco temporale, il paesaggio fisico o quello emotivo. Fa sì che una storia che rischiava di languire insieme ai suoi personaggi si muova invece a un ritmo vivace. Rallenta solo occasionalmente, di solito durante le descrizioni del paesaggio, che sono abbastanza frequenti da diventare un po’ noiose. Ma in un romanzo che immagina come gli esseri umani potrebbero sopravvivere una volta privati di una modernità che si è spinta troppo oltre, forse anche questo fa parte della tesi: anche i più bei tramonti e i campi di salvia diventano noiosi quando sono tutto ciò che hai. Se il romanzo è attuale lo è accidentalmente, come la maggior parte dei romanzi veramente attuali. Più che attuale, sembra senza tempo, solido, come un classico dimenticato. Una favola brutale e ammaliante sull’umanità. Ma in fondo è un romanzo sulla maternità e sul mondo che creiamo (o distruggiamo) per i nostri figli.
Emily Temple,
The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati