Avventurarsi nel caldo afoso dell’Europa meridionale in piena estate è un gesto di sudaticcio sprezzo del pericolo. Forse l’unico posto sensato dove andare è una spiaggia. Nella maggior parte dei paesi per una gita al mare occorre poco più che qualche paletta, un ombrellone e la crema solare. Ma chi sceglie i litorali italiani deve portare con sé anche il portafoglio. Gran parte della costa italiana è a tutti gli effetti una proprietà di pochi fortunati. Le famiglie che hanno le concessioni per gestire gli stabilimenti balneari monopolizzano il litorale con file di sedie a sdraio e ombrelloni. Pagare l’equivalente di un paio di biglietti del cinema (cioè almeno 30 euro nel Regno Unito) per una giornata di ombra è un caposaldo delle estati italiane, alla pari del gelato e delle partite della nazionale maschile di calcio che ha mancato la qualificazione agli ultimi Mondiali.
Nel mondo dell’economia forse c’è di peggio di questi simpatici balneari, impegnati a offrire ai clienti boccheggianti una tregua dal sole e l’occasionale limonata. Eppure, il modo in cui sono gestite le spiagge italiane ha fatto diventare le facce delle autorità europee più rosse di quella di un bambino lasciato sotto al sole. Per più di dieci anni la Commissione europea, nella lontana e piovigginosa Bruxelles, ha tentato di far rispettare al settore le regole che garantiscono la concorrenza. Dal suo punto di vista, il sistema delle concessioni balneari equivale all’occupazione di un redditizio settore commerciale da parte di operatori storici protetti: proprio quello che ostacola la crescita dell’Europa. È così? Per capirlo ci siamo infilati occhiali da sole e infradito per una visita alle spiagge italiane.
Chi può avere uno stabilimento balneare? La maggior parte delle concessioni negli ottomila chilometri di coste italiane è un affare di famiglia, alcune derivano da vecchie capanne di pescatori. Concessioni che sono diventate un grande business: sono circa dodicimila e probabilmente incassano in tutto più di dieci miliardi di euro all’anno. Dato che le spiagge fanno parte del demanio, una grossa fetta di questi soldi dovrebbe finire nelle casse delle autorità locali. Ma gli affitti ammontano a poco più di cento milioni di euro, una cifra molto piccola. Anche tenendo conto delle spese sostenute per gli ombrelloni, i margini di guadagno potrebbero attirare altri imprenditori, che magari hanno nuove idee su come gestire un chiosco sulla spiaggia, offrono prezzi più vantaggiosi o sono disposti a pagare affitti più alti. Ma dagli anni novanta le autorità italiane hanno permesso che le concessioni si rinnovassero quasi automaticamente. Questo ha creato un circolo chiuso, come quello dei taxi, senza concorrenza.
Una lunga battaglia
La Commissione europea vuole che le autorità italiane tirino la testa fuori dalla sabbia. Secondo le regole dell’Unione europea, che nel 2006 ha esteso il mercato unico anche ai servizi, chiunque dovrebbe potersi candidare a gestire queste attività. Qualsiasi cittadino italiano o europeo che abbia voglia di cimentarsi nel noleggio di sedie a sdraio. Per questo Bruxelles ha chiesto di modificare il sistema delle concessioni balneari: dovrebbero essere assegnate con gare d’appalto aperte – magari all’asta, anche se non necessariamente – per periodi limitati di tempo e sulla base di criteri oggettivi, che non possono comprendere argomenti come “mio padre aveva questa concessione e suo padre prima di lui”. Solo allora si avrà una vera concorrenza e i consumatori vinceranno.
In Italia adeguarsi alle regole dell’Unione sconvolgerebbe decenni di tradizione. E se le grandi catene alberghiere decidessero di buttarsi nel mercato delle spiagge, o peggio, se gli albergatori tedeschi cominciassero a vincere le gare? Dato che il litorale italiano è anche il suo confine, la sicurezza nazionale sarebbe garantita senza gli autentici balneari a sorvegliare le coste?
Fortunatamente per gli operatori storici del settore, le autorità italiane sono più furbe degli eurocrati. I primi moniti ufficiali arrivarono da Bruxelles nel 2008, sostenuti dalle sentenze dei tribunali dell’Unione europea. I politici di Roma promettevano sempre di uniformarsi alle regole comunitarie. Così Bruxelles lasciava cadere i suoi rimproveri, ma a quel punto le concessioni venivano puntualmente prorogate. Nel 2022 il governo guidato da Mario Draghi è stato l’ultimo in ordine di tempo a promettere che entro la fine del 2023 ci sarebbero state nuove gare per le concessioni balneari. Giorgia Meloni, che ha preso il posto di Draghi, però ha subito invertito la rotta. Inoltre un alleato di governo ha definito un “esproprio” le gare volute da Bruxelles. I proprietari degli stabilimenti hanno una notevole capacità d’influenza: in una recente riunione ministeriale c’erano undici associazioni di categoria in rappresentanza dell’industria dei lettini. La loro ultima furbata per rimandare il problema è stata chiedere una laboriosa mappatura delle coste italiane, che secondo loro mostrerà che ci sono abbastanza spazi liberi per rilasciare nuove concessioni a chi vuole entrare nel giro.
La situazione è tutt’altro che ideale per i proprietari degli stabilimenti. “Per anni abbiamo cercato di capire cosa fare”, dice Alessandro Rizzo, che ha una concessione al Lido di Venezia. Gli investimenti per migliorare le strutture sono rischiosi, data l’incertezza. La sua famiglia gestisce lo stabilimento dagli anni settanta. Molte delle 260 cabine sono affittate alle famiglie del posto per tutta l’estate, a un prezzo che può arrivare a seimila euro. Certo, ammette di beneficiare di una vantaggiosa distorsione. Ma questo privilegio comporta obblighi che i funzionari di Bruxelles non colgono: prendersi cura della spiaggia, tenere gli adolescenti lontani dai guai e garantire a tutti di potersi abbronzare in tranquillità. Perché tutto deve essere gestito con regole che danno alle grandi imprese un vantaggio rispetto ai piccoli imprenditori?
Molti italiani pensano che le concessioni dovrebbero essere cancellate: ci sono zone del paese in cui gli stabilimenti privati sono così fitti che è impossibile andare in spiaggia senza pagare. Vista da Bruxelles, la diatriba è parte di una lunga battaglia per l’anima dell’economia europea, in particolare quella del suo sud più povero.
I privilegi concessi a una ristretta cerchia di fortunati finiscono per rappresentare dei costi enormi per molti. Cose su cui riflettere in attesa della limonata. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati