Il valico di Rafah, l’unico passaggio che i palestinesi possono usare per uscire dalla Striscia di Gaza dal lato egiziano, è stato chiuso il 10 ottobre, dopo tre attacchi aerei israeliani. Cinque fonti politiche e diplomatiche egiziane, che hanno parlato a patto di restare anonime, hanno identificato due questioni centrali per Il Cairo. La prima riguarda la fuga di decine di migliaia di abitanti di Gaza verso il confine nel tentativo di raggiungere la penisola egiziana del Sinai. La seconda chiama in causa lo storico ruolo dell’Egitto come mediatore regionale nella gestione degli affari palestinesi, ora messo in discussione.
Il Cairo si oppone all’arrivo dei palestinesi, ma ha avviato un piano che prevede l’allestimento di tende sul confine, cordoni di sicurezza e un divieto per i profughi di andare oltre la zona cuscinetto lunga 14 chilometri e larga 500 metri a Rafah, in costruzione dal 2014.
Tradizionalmente l’Egitto ha un peso significativo nelle mediazioni tra Israele e la resistenza palestinese e in passato è riuscito a evitare che la situazione a Gaza degenerasse. Ma ora è diverso. Secondo le fonti, il governo israeliano e i suoi alleati negli Stati Uniti e in Europa accusano l’Egitto di non aver impedito l’escalation di Hamas. E le critiche sono amplificate dalla corsa delle potenze del Golfo, soprattutto Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, a diventare i nuovi intermediari.
Tutto questo avviene mentre l’Egitto sta vivendo una delicata situazione politica ed economica: tra meno di due mesi ci saranno le elezioni presidenziali, in un clima teso a causa di un’inflazione e di una crisi del debito senza precedenti. Ci sono dubbi sulla capacità dell’Egitto di resistere alle pressioni. Secondo le fonti, la debolezza del Cairo potrebbe portare Israele, sostenuto da Washington, a proporre un piano di reinsediamento dei palestinesi nel Sinai, in cambio di incentivi economici. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati