Per favore non chiamate Douglas Coupland la voce della sua generazione, anche se è un’etichetta davvero difficile da staccargli di dosso nelle interviste, sui giornali, nelle recensioni entusiastiche. Generazione X (uscito originariamente nel 1991, ndr) è il suo primo romanzo, un asciutto e sorprendente ritratto di quel gruppo di persone sempre più sconsolate nate tra il 1961 e il 1971. A volte le chiamano la generazione perduta, a volte baby busters, come opposizione di baby boomers. Comunque vogliate chiamarla è una generazione di giovani adulti post-anni ottanta a cui è stato dato non solo un piatto vuoto, ma un piatto senza nessuna possibilità futura. I baby boomer gli hanno preso tutto: i buoni posti di lavoro, le belle case e la buona sorte. La generazione X non ha un lavoro, al massimo ha un McLavoro (“basso salario, basso profilo, pochi benefit, poco futuro”), fa parte del jet-set della povertà (ha viaggiato molto ma rimane squattrinata), è ironica per riflesso condizionato e non crede che il futuro sia migliore del presente. È una generazione bombardata d’informazioni che fa fatica a filtrare. Nel romanzo Andy, Claire e Dag sono fuggiti a Palm Springs, dove se ne stanno seduti davanti al loro bungalow a bere troppi gin tonic e raccontarsi storie. Il fallimento morale dei baby boomer è un tema ricorrente. Per esempio la storia di Dag racconta di come abbia abbandonato qualunque ambizione di carriera dopo aver fatto una sfuriata al suo capo “con quello stramaledetto codino”, un simbolo del suo essere un ex hippy venduto al capitale. Dag gli ha urlato: “Pensi che siamo così contenti di sentirti parlare della tua nuova casa da un milione di dollari quando noi, a quasi trent’anni, possiamo permetterci solo un panino con la sottiletta nelle nostre stanze minuscole?” . Il romanzo all’inizio era stato concepito come una serie di piccole storie presentate come se fossero le voci di un manuale, una guida ragionata attraverso gli alti e i bassi della generazione X. Ma mentre scriveva Douglas Coupland si è accorto che stava prendendo forma un romanzo e aveva paura che la casa editrice lo avrebbe rifiutato. “E invece”, ha detto, “la parte più giovane dello staff mi ha sostenuto strenuamente. È a loro che devo tutto”. Robin Abcarian, Los Angeles Times (1991)

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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 87. Compra questo numero | Abbonati